venerdì 8 aprile 2016

Accabadora di Michela Murgia - recensione

Colei che finisce, in sardo. 
Accabadora era una persona che veniva chiamata dai familiari di un malato per porre fine alla sua vita. Sulla sua figura aleggiano miti e notizie storiche fondate su tradizioni popolari della Sardegna durante gli anni cinquanta.
Ci sono posti dove la verità e il parere della maggioranza sono due concetti sovrapponibili. C'è chi racconta fosse una donna tutta vestita di nero con un velo in testa, non un'assassina ma una che come opera di bene liberava i poveri malati e le famiglie dalla sventura del dolore e della malattia; interrompeva la loro agonia con un colpo fermo sulla fronte di mazzolu (era un bastone particolare costruito appositamente per compiere questi atti pietosi ) o lo soffocava con un cuscino. C'è chi dice che la stessa persona fosse chiamata anche per fare nascere i bambini, da qui il soprannome di ultima madre, e si distingueva dal colore dell'abito che indossava, bianco o nero. Una mescolanza di pensieri tra vita e morte che si fondono in un cerchio continuo in cui girano tradizione e cultura dei popoli. Un libro sull'eutanasia e il testamento biologico, tra mito e antropologiche realtà tramandate. Acabar vuol dire finire anche in spagnolo. Le colpe esistono solo se vengono palesate agli altri, di nascosto non trovano terreno fertile. Un libro sulla costruzione della fragile normalità, la famelica curiosità umana, l'eutanasia, l'adozione. I figli sono di chi li sceglie, di chi li cresce e non sempre corrisponde a chi li genera o partorisce. La vita e la morte, piacere denso simile a dolore in bocca, l'amore per la terra che se muori per lei diventa tua, per forza la tua. 
"Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte...". La notte porta consiglio, la notte porta la notte e basta! E con Accabadora la fine! 
La morte.


Nina Tarantino