sabato 31 gennaio 2015

Lo spoglio



Lo scrutinio è in atto. In diretta. Mattarella, Imposimato, ancora Mattarella.
Facchinetti (non quello dei Pooh penso e rido), Vittorio Feltri, Mattarella, Imposimato. Bianca. Mattarella sarà il Presidente della Repubblica? Momenti di attesa. Nulla. Bianca. S. Mattarella, On. Mattarella, Mattarella.

venerdì 30 gennaio 2015

Baària, il film che piacque soprattutto a iddi!

Ho sempre sostenuto che Baarìa è un gran candeggio per un paese mafioso, più sbiancante di un accurato revisionismo storico.
E navigando per siti di cronaca nera, trovo questo commentone - ad un articolo relativo ad un pentito.
Così il commentatore si rivolge al sito:






"Dato che per forza dovete sempre mettere articoli che ci fanno schifiari a noi Bagheresi nel mondo metto una frase ri BAARIA. "MAKKATTU I DOLLARI" "TUTTI SCRIVUNU 6 PENNI CENTU LIRI "
MENO MALE CHE LA DIGNITA CHE LEVATE AL PAESE , VOI GIORNALISTI SEMPRE, CON QUESTI TIPI DI ARTICOLI E' POLITICI CA MUNNIZZA CHI NI LASSANU PI STRATI C'E TORNATORE 
E TANTE PERSONE PER BENE CHE CERCANO DI BILANCIARE IL BUON NOME DI BAGHERIA .

ma TUTTO cio ca incomincia FINIRI AVRA', appena cade il sistema schifoso italiano vedrete che non ci saranno più ne Mafiosi ,ne pentiti ,PERCHE STI SCHIFEZZE SOLO IN UN PAESE INCIVILE E CON BECCHI COME SU RICCARDO ARENA POSSO ANDARE AVANTI .leggete attentamente quello che scrivete in tutto questo articolo non esiste un grammo di nessuna prova "CONFIDENZE KIDDRU CHI CI RISSI KIDDRU IO LO SENTITO DAL TIZIO CA SI LAMINTO RU TIZIO come si potrà mai vedere LUSTRU Bagheria ? vi "CUNPANAGIATI" u paniciaddru senza capire il danno che date al Turismo al economia del paese 
Tornatore fu accusato in tutte le tv perché nel suo capolavoro BAARIA non parlo di Mafia il suo film fu pure boicottato AL LEONE D'ORO DI VENEZIA ,queste sono tutte colpe di voi giornalisti Siciliani ca un aviti amuri pa Sicilia".


Peppu', aggiusta 'stu dannu!


Giorgio D'Amato

Il fuoco dei giusti - Armenia genocidio negato

Un garofano all’occhiello a dispetto del grigio, della polvere e del pallore della morte. E’ necessario sopravvivere al desiderio di lasciarsi morire, di essere risucchiati nei fossi che tracimano di corpi, di piangere come se fosse la propria ogni madre uccisa lungo strade polverose, o i propri figli e fratelli quelli ammassati come bestiame di ultima scelta in treni scalcinati e fetidi. Ripeto il mio nome, mi ripeto vivi e non dimenticare nessuno dei nomi e a quelli che non sai, dai il tuo. Basterà scrivere: Un popolo sulla lapide, e non sarebbe ancora sufficiente per fare l’appello dei morti.
Porto la mia macchina fotografica ed è faticoso, non è una digitale, siamo solo all’inizio del secolo, ed io sono un uomo armato di buona volontà e qualcuno dirà di coraggio. Sono un uomo, giusto? Saranno altri a sancirlo non sono niente, adesso invece. Sono una mosca sul culo di non so quale Dio. So che per voi è difficile pensare a un signore vecchio stampo che si esprima così. Un prussiano purosangue che si reca a implorare la salvezza per un popolo che non è il proprio, (nessuno può pensare che un popolo gli appartenga e farne ciò che vuole) che pensa di poter dialogare con il Presidente degli Stati Uniti e con quel folle di Hitler, il primo m’ignorerà il secondo cercherà di uccidermi. Percorrere la strada dell’esilio e accettare che nessuna terra ci appartiene davvero, apparteniamo all’idea di giustizia, agli ultimi e al dolore degli innocenti. La verità è negli occhi sbarrati che non hanno capito, nelle donne in ginocchio che implorano per i propri figli, ma la pietà è un sentimento strano, legato a logiche spesso incomprensibili.
Armin T. Wegner

giovedì 29 gennaio 2015

Sezione giovani: il frutto immaginario

Questo frutto nella realtà non esiste perché è nella mia mente. Si raccoglie in alcuni boschi particolari non troppo fitti ma neanche troppo poco, precisamente in zone dove si erge una collinetta su cui si può trovare molto muschio, vicino a un torrente in mezzo ad alberi molto alti e dritti anche se non sono questi gli alberi da cui si raccoglie ma da una pianta accanto tutta intrecciata chiamata Betonia, spinosa come quella dell’uva. Cresce in climi non troppo umidi.
Da come la immagino io, la pianta presenta un rametto simile al ramo dell’uva appena raccolta ed è marrognola (un colore sfumato che va dal verde al marrone passando dal giallo). 
Nel pedicello si trovano delle radichette molto sottili e verdi.
Il Betton, così si chiama il frutto che viene dalla Betonia, è di colore viola e presenta delle linee nere e sottili che ad un certo punto si arrotondano. L’odore che produce è quello del muschio e la polpa ha la consistenza e il sapore del cocco (anche se dentro è viola), quindi è molto fresco. I semi del Betton sono neri e hanno la forma di goccia.


Francesco Pecoraro

mercoledì 28 gennaio 2015

I Rolex fasulli di Porticello

Che uno legge di Porticello nelle cronache nere e quasi quasi si mette a ridere.
Io questi che sono stati arrestati per la storia degli orologi falsi li ammiro - dice che uno di questi faceva finta di parlare in cinese e così raggiravano poveri ingenui. Io li ammiro non per quello che hanno fatto, ma per come hanno sfruttato una possibilità che il mercato gli ha offerto.
Per dire: i bambini hanno bisogno di latte. E spunta la Parmalat che vende il latte in cartoni.
C'è gente che si affuca di cibo e catafotte carrellate di mangiare e per ruttare ha bisogno di una cosa frizzante: spunta la Coca Cola e gli fa trovare la bottiglia di due litri magari con l'offerta speciale.
Bene.
Esistono a questo mondo individui che, per soddisfare un bisogno di autoaffermazione, sentono l'urgenza di avere un orologio d'oro che tutti quando li vedono dicono: mih, ma è Rolex? un Rolex vero?
Che il Rolex ha una bella storia, per dire, Gaetano Sangiorgi ne regalò uno ad ogni killer del commando che andò a sparare a Ignazio Salvo, quello della Zagarella e delle esattorie e dei finanziamenti alla corrente andreottiana.
Un bell'orologio può significare tante cose. 
Ma personalità e potere sono ben altro, per averli ci vogliono intelligenza e competenze, sia che si tratti di fare un trapianto che di sparare al cuore.

Potete dire quello che volete, a me questi che vendevano orologi fasulli, mi fanno simpatia.

Giorgio D'Amato

Nino Gennaro

cacare né mollo né duro è tutto
caco con le mani giunte
se sapessimo
quanto bene
                    c’è
in atti che comunemente
mangio al sole
leggo al sole                                  il sole è il mio
predico al sole                               ultimo marito
mi piace sentirmi bruciare dal sole
                                                       adoro il sole
se penso che l’adriatico sta morendo
e
chissà com’è la soia che sto mangiando
come posso essere così felice e innamorata?
chi è
felice                              mangio con appetito selvaggio
è pazzo
bevo
con
soddisfazione                  il mio amore
acqua di                         senza appartenenza
fogna                              plurirepertorio
abito in una
discarica pubblica
senza esagerazione
da 20 giorni
non passano gli spazzini
la strada fete
la casa fete
tutto fete
la scala fete
la stanza fete
non voglio essere
né semplice né complicato
né triste né divertente
né saggio né cretino
sono
alla fine del pianeta


                                              Nino Gennaro


Nino Gennaro (in arte "Fufo"), autore, poeta, saggista, drammaturgo, fratello e compagno di una generazione quella degli ani '70 e '80, alle prese con problemi di identità, fu un testimone del suo tempo, animale politico di strada, rivoluzionario meridionale, “un autoironico Socrate solitario”, indiano metropolitano, cacciato dal proprio paese di origine (Corleone), per le sue idee stravaganti e estroverse, inconciliabili con la cultura pseudo-mafiosa degli anni '70 e '80. Nemo profeta in patria, ma non so fino a che punto…
Nino Gennaro, nasce a Corleone nel 1948, l'impegno culturale e politico, la sua lotta contro tutte le mafie, il suo essere in prima linea per l'affermazione dei diritti degli omosessuali, il suo rifiuto a vetrine e convenzioni ponendosi intenzionalmente ai margini dell'ufficialità, lo fa divenire una figura dirompente nella scena corleonese. Agli inizi degli anni settanta Nino col suo fermento creativo è il fondatore del primo circolo Arci a Corleone, poco dopo in vista delle imminenti elezioni fonda un circolo fgsi dei giovani socialisti; nonostante la sua personalità e i suoi modi di fare siano piuttosto estremi per una cultura retrograda, riesce a coinvolgere una ventina di giovani, tra cui alcune donne, cosa molto rara per quei tempi, ma vista la brutta fama che si era fatta all'interno delle “pure e caste” istituzioni locali (è un circolo di drogati… si pratica l'amore libero… tendono a diseducare l'insegnamento genitoriale…) il PSI decide di non finanziare più il circolo. Dopo poco tempo è tra i fondatori del Circolo Popolare “Placido Rizzotto” coinvolgendo sempre di più i giovani anche di paesi limitrofi, era una meta di studenti, disoccupati, curiosi, i quali grazie a fogli informativi, e con la pratica della formazione-informazione tramite letture di vario genere, venivano stimolati al cambiamento socio-politico-culturale. Essi parteciparono anche a degli scioperi di braccianti agricoli, condividendo in pieno le loro posizioni. L'8 marzo del 1975 organizza in collaborazione con l'ARCI la prima Festa della Donna Corleonese e con essa il vento di un desiderio di libertà e di cambiamento che nel resto d'Italia e del mondo già spirava da un buon decennio. Si procedette con manifesti scritti a mano e volantini con articoli di denuncia sulla condizione femminile, ma andò male, perché le donne partecipanti, sono state accolte da severe punizioni da parte delle famiglie, le riviste e i volantini in cenere. Una delle teorie di Nino era quella che non esisteva un solo modo di pensare, ma tanti; nessuno poteva ritenersi idoneo ad avere il monopolio del pensiero. Una donna molto importante nella vita di Nino è stata Maria Di Carlo, “compagna di una vita” venuta alla ribalta dei media per aver denunziato il padre padrone (onorevolissimo dottore di stampo prettamente democristiano) accusato di picchiarla regolarmente e averla segregata in casa per impedirle di frequentare le cattive compagnie del Gennaro. La giustizia diede ragione a Maria, e dopo poco tempo, al compimento della maggiore età seguì Nino nell'esperienza palermitana. Nino invitava i suoi conterranei a ribellarsi al “Tardo mafioso impero”, dichiarando che Corleone non era una repubblica indipendente e i corleonesi non erano tutti gregari del boss Luciano Liggio. Il suo messaggio ha ancora un'attualità straordinaria: c'era e c'è un'altra Sicilia che non va sotto i riflettori dei media, che fa fatica a campare ma che è una grande risorsa di idee, creatività ed umanità, ed è un'arma fondamentale per battere il sopruso criminale e la rassegnazione. Emarginato dalla perbenista e mafiosa popolazione corleonese, Nino decide di trasferirsi a Palermo con una valigia piena di sogni e realtà in contrasto tra loro, con la coscienza che la storia della mafia è grande almeno quanto quella dell'antimafia, anche se trasparente all'occhio comune, e che il piacere e il dolore della conoscenza dovevano pervadere i corpi e le anime dei pensanti. A Palermo inizialmente fu ospitato da compagni di città, subito dopo fu raggiunto da Maria già maggiorenne e da lì nasce un rapporto di platonico amore (vista l'omosessualità di Nino) che è durato per 18 anni fino alla morte dello stesso. Delle tante esperienze palermitane si ricordano la fondazione assieme ad altri compagni del Centro Sociale San Saverio, la costituzione del CO.CI.PA. Comitato Cittadino Informazione e Partecipazione, e del Comitato per la Casa dell'ormai celebre slogan creativo: “La casa è come il pane”, cioè buona come il pane, dolce come il pane, necessaria come il pane, che fu scritta a mano con pennarello rosso tante volte sui muri, sulle magliette, ovunque, ricavandone l'attenzione di stampa e televisione. Per il costante lavoro profuso per gli altri e per dimostrare che un altro mondo è possibile, venne chiamato più volte “formica sociale” anche per il costante pendolarismo tra Corleone, Palermo e provincia dove ha portato solidarietà, sostegno e idee al giornale “Citta Nuove Corleone” vittima di un attentato doloso, e molte innovazioni al Centro Impastato di Cinisi. Importanti per la vita del “poeta artigiano” è stato il rapporto con il teatro: ha creato assieme alla sorella Giusi e a Maria Di Carlo il “Teatro Madre”, un teatro di autori-attori-interpreti di se stessi, storie di vita quotidiana, dei rapporti genitori figli, una specie di teatro clandestino senza fissa dimora, fatto di corpi, voci, luci soffuse di candele, che andava di casa in casa, dove capitava, interpretato da gente comune, operai, studenti, disoccupati. Grazie al teatro, si conobbe con molti personaggi dello spettacolo più o meno affermati: Silvio Benedetto, Michele Perriera e l'attore-regista Massimo Verdastro, con il quale iniziò una grande amicizia, fu infatti grazie a Verdastro che molte opere del Gennaro furono pubblicate, tra cui Una Divina Palermo (una raccolta di schegge, pensieri, mixati assieme), La Via del Sexo e Rosso Liberty, e fu sempre il regista a ricordarlo a 10 anni dalla sua scomparsa organizzando lo spettacolo omaggio a Nino O si è felici o si è complici. Alla fine degli anni '80 Nino si ammala di Aids, ma nonostante tutto, scrive a mano circa 2000 libretti che chiamerà “Gioiattiva”, che regalava individualmente a chi il destino metteva nel suo percorso; la stessa malattia lo condurrà poi alla morte nel 1995. Eclettico per eccellenza, poteva occuparsi di politica, di poesia, di religione, di letteratura, senza comportamenti stagni, possiamo senza dubbio considerarlo un testimone del suo tempo, libero senza “padrini”, che forse non ha avuto il pregio di morire ammazzato, perchè sennò ci avrebbero fatto sopra un film.
Semplicemente… Grazie Nino, personaggio positivo del '900 corleonese !!!


(da Dialogos - Corleone)

martedì 27 gennaio 2015

L'arte spiegata ai non vedenti: La squartariata

Questo quadro, più che quadro veramente sembra un rettangolo, è di Rem Brant (lontanissimo parente di Pitt Brant meglio noto come Bred Pitt). La storia racconta fu commissionato da tale Gilda dei Medici. Ca’ certo u pitturi appena ‘ntisi: Piacere, dei Medici! e allora si ispirò subito e lo titolò “Lezione di anatomia”, sottotitolo: comu si sqartaria un vrazzu a na bon’armuzza.Il dottore - no prego profissore! - sembra dire: prendete la pinza e dopo incisione della cute sollevate l’ estensore lungo del dito medio. Dagli sguardi degli studenti (u chiù bravu ava esseri na dicina d’anni fuori corso) non sembra  che  l’argomento interessi molto. Da che cosa si deduce?Guardate quello più in alto di tutti, dall’espressione beata con la manuzza sopra la spalla di quello che gli sta davanti: sembra di costui un buonissimo amico, anzi più che amico. Il costui davanti a lui (fa puru rima) è, come si vede, inequivocabilmente chino davanti a lui quasi a formare un angolo di 90 gradi (e non pare per seguire la lezione).Ma non finisce qui: taliati questi due in basso a sinistra (puta caso puru iddi uno davanti e uno darrè), sicuro stanno insieme dal primo anno di università.Ne restano altri tre: unu finge ca segue a lezione e ‘nto mentre si leggi 'u giornale, chiddu o lato du dutturi - ti rissi profissore -, sta talianno 'u culu da nfermirera ( 'nto quatro non si vede ma c’era di sicuro), 'u terzo cà panza supra a testa da bon’arma guarda con insistenza la macabra mollezza che si intuisce da sotto il lenzolino, e sembra tormentato dal dilemma: nsà comu ci addiventa 'u pisello a un muortu.'U veru titolo di stu quatro ? ”Lezione di anatomia di cui 'un ci nì futti nenti a nuddu”.

Rosa Liberto

Olocausto, Palestina, un campo di grano

L’olocausto degli ebrei.
Mi piace ricordare l’immagine del piatto di grano (dietro il suggerimento di un noto cantautore italiano),  il pane fragrante e soffice di lievito che tante volte gli ebrei non hanno potuto mangiare perché senza una terra, esiliati nel deserto, erranti e dispersi. E a questa immagine non posso fare a meno di associare la bellezza di un campo di spighe.
Cosa c’è di più bello di un campo di grano ondulato dal vento sotto il sole tiepido del mediterraneo? Forse bambini che giocano per le strade polverose e le casa abbattute della striscia di Gaza? Le loro facce sorridenti scavate come vecchi, i loro occhi scuri spalancati per la meraviglia dietro il muro? Si, l’innocenza  emana una bellezza che non necessita prove.
Mi immagino quando questa visione di bellezza svanirà e dietro il muro i bambini vedranno solo l’odio e il desiderio di vendetta.
Ci viene chiesto di ricordare e dunque ricordo; ma non posso tenere gli occhi chiusi, neppure per aiutare il ricordo. Qualcosa mi dice che per onorare quanti hanno subito le umiliazioni e l’annientamento ( e che senso ha, altrimenti, ricordare?) dobbiamo impegnarci a non ripetere gli errori del passato e, dunque, emendare, recuperare, restituire, sanare, riconoscere.
Mi sono sempre chiesta perché l’Europa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, abbia voluto far pagare le conseguenze dell’Olocausto al Popolo Palestinese quando acconsenti a trasformare il territorio, dove i palestinesi  abitavano da quasi mille e cinquecento anni, in Stato di Israele.
Ho notato che i libri di Storia non si sono ancora aggiornati su questa “questione palestinese” e sono in pochi a conoscerla; di solito viene riassunta in poche righe. Ma sappiamo, anche, che leggere la Storia non è facile, che essa è soggetta al fatidico “punto di vista” che raramente lascia trasparire i fatti, così come si sono svolti.
Sappiamo tutti che la scelta, a cui accennavo all’inizio, ha provocato una “questione” che non accenna a risolversi e che, anzi , ora più che mai è fonte di gravissimi conflitti, non solo nel territorio Arabo-Israeliano,ma in tutto il medio oriente; infatti la miccia del conflitto che allora venne accesa non accenna a spegnersi e avvampa ora più che mai, non solo in quel  luogo, diventato centro di numerosi conflitti, guerre civili, lotte fra fazioni (appoggiate da occulti finanziatori e promotori di rivolte “democratiche” che si rivelano altrettante sanguinose avanzate dell’occidente), ma, come si sarebbe dovuto immaginare ( ma forse è questo che si vuole?), nell’intera Europa; un inedito conflitto arabo-occidentale che ci catapulta in una condizione di insicurezza da guerra ( mi verrebbe da dire fredda, ma pensando agli attentati di queste ultime settimane, mi rendo conto che la “questione” potrebbe rivelarsi più che calda!)reale e non più ipotetica.
Per dare risposta a questa mia domanda mi è bastato rivedere un poco la storia PRIMA della seconda guerra mondiale e scoprire che quella nascita si deve tutta sia all’Inghilterra,( che non solo consentì ma creò i presupposti per la nascita dello Stato di Israelenel cuore del Medio Oriente, in un territorio popoloso e con forti radici musulmane)ma anche all’America che lo riconobbe  subito come Stato.
 Già nel 1917, infatti,  durante il primo conflitto mondiale, il Governo britannico, per bocca del suo rappresentante,l'allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour in una lettera a Lord Rothschild, inteso come principale rappresentante della comunità ebraica inglese, e referente del movimento sionista, affermava di guardare con favore alla creazione di un focolaio ebraico in Palestina, in vista della colonizzazione ebraica del suo territorio. ( Tale posizione del governo emerse all'interno della riunione di gabinetto del 31 ottobre 1917.) Questa dichiarazione non ha, però, solo aperto le porte agli ebrei, ( molto prima della seconda guerra mondiale e del Nazismo),  ma ha soprattutto deciso le sorti dei popoli del Medioriente, - non solo spargendo quel suolo di sangue di innocenti, alimentando conflitti etnici e di casta già affrontati, e in maggioranza, superati  grazie anche alla cultura musulmana,  ma arrestando lo sviluppo democratico di queste popolazioni che avevano nella religione, non, come ora si dice volgarmente, una causa di  conflitto con la cultura europea, ma un valido strumento di dialogo, come ci ricordano teologi di grande fama ed intelligenza come Hans Kung.
Quello che mi intriga molto è il modo in cui tutto questo è avvenuto, dunque, - senza parlare delle numerose guerre e della strenua resistenza dei Palestinesi, delle uccisioni subite, dell’esilio in una striscia di terra, Gaza, che diventa ad ogni conflitto sempre più esigua -  infatti mai i palestinesi, nonostante il sostegno di alcuni paesi ex comunisti, la solidarietà di tanti cittadini del mondo,  sono riusciti a tenersi i territori che sono stati loro sottratti, a varie riprese  nei conflitti; ne tantomeno a farsi riconoscere la sovranità dei territori che attualmente sono loro rimasti! La loro inferiorità è palese e questo fa si che vengano individuati come le vittime di un “nuovo”, l ‘ennesimo, ingiusto Olocausto, che il popolo ebraico non dovrebbe permettere, alla luce della sua tragica, lunga storia di annientamento, sopraffazione, diaspora! I palestinesi sono diventati, proprio tramite l’occupazione ebraica, e restano, un Popolo in esilio, senza il riconoscimento della sovranità che si deve ad uno Stato, benchè piccolo! Benchè microscopico, come, che ne so!? Il Vaticano. Perché ?
Una risposta banale come: la storia non si può fermare, le sue ragioni sono lontane e il suo processo è inarrestabile..non possiamo accettarla. La Storia siamo noi, dice il cantautore italiano…”.siamo noi quel piatto di grano”.
 Mi soffermo alla considerazione spontanea che può venire a tanti, -  ma siamo veramente tanti? e veramente sensibili e indignati nei confronti del male e dell’ingiustizia?( visto che ancora la questione mediorientale resta un palliativo fra capi di Stato più o meno sinceramente volenterosi di appianare la questione, ma che non ne hanno mai prodotto una definitiva risoluzione. E non si parla qui  di restituzione di TUTTI i territori occupati! ma  di riconoscere almeno i confini, una volta per tutti, e la sovranitàdi Gaza, che non è altro ormai che un grande quartiere degradato e un’aria poco fertile della costa occidentale.)-  a coloro che in questi giorni rinnovano il ricordo dell’Olocausto subito dagli ebrei durante la seconda guerra mondiale a causa del Nazismo e delle leggi antirazziali: come si può scindere il ricordo e il dolore per questa grande ferita che l’Umanità si è autoinflitta senza pensare ai palestinesi? - alla loro condizione di vittime di una grande ingiustizia che, diversamente da quella subita dagli ebrei, siamo ancora in tempo a revocare.
Rosa La Camera

La guerra dei sei giorni

6 Giugno 1967. In soli sei giorni cambiò il volto della Nazione. Mi chiamo Abhram Olokan, sono ebreo, ho 94 anni, i mei genitori vennero in Terra di Palestina dopo il primo grande conflitto chiamato Prima Guerra Mondiale. Ci spostammo dalle Regioni Russe, mio nonno raccontava  che da prima di arrivare nella nostra Terra Promessa subivamo la persecuzione per la nostra religione, l'abitudine a non mangiare maiale e a tenere i boccoloni sotto la papalina nera. Adesso non è diverso. Noi prepariamo il pastrami ancora secondo la tradizione ebreo russa con la carne in salamoia e lo accompagnamo ai cetriolini. Che male c'è se vogliamo cucinare il pane in forno dopo averlo bollito e consumare l'agnello con pane azzimo?
Molte cose sono cambiate da quando giungemmo in Palestina. Abbiamo dovuto lasciare le terre coltivate per ben due volte, abbandonando ettari ed ettari di agrumi. Le disposizioni dell'ONU cambiavano continuamente e i gruppi politici che ci guidavano prendevano spesso posizioni opposte anche tra loro. 
Noi vogliamo solo aprire la tavola per il banchetto pasquale e arrivare alla fine di questo, mangiare il pane azzimo assieme all'agnello in ricordo dei nostri antenati che Dio liberò dalla schiavitù dell'Egitto, sposare le nostre donne e osservare il sabato leggendo i versetti della Torah. Nel timore di Dio vorremmo cantare le lodi del Signore di Abramo, Mosè, Isacco. 
Vennero molti e molti ebrei dopo il grande conflitto chiamato Seconda Guerra Mondiale. Arrivavano a migliaia e diventammo milioni. 
La terra non bastava più, i campi avevano bisogno d'acqua per diventare fertili e sfamare tutte quelle bocche. L'acqua del fiume Giordano e le coste sul Mediterraneo per incentivare i commerci. Così iniziò il primo conflitto arabo-israeliano. Ma solo la Guerra dei sei giorni cambiò definitivamente il volto della terra di Palestina. Fu una carneficina. Il conflitto fu sempre voluto dagli arabi ma furono decimati, i territori invasi, scacciati e derubati delle loro terre, respinti ai confini divennero profughi verso l'Egitto, la Siria, la Giordania. Il popolo di Dio trionfava, suonando le trombe nel nome del Signore, la polvere invase i campi, il cielo divenne una cappa nera di fumo e fiamme.
Per sei giorni tuonarono i colpi del nostro esercito come le trombe del giudizio. 
I superstiti della Grande Guerra, dicono, che avessero subito l'Olocausto, ma io dico che avevano annidato il male nel loro cuore.
Il male genera altro male, la cattiveria umana trova appagamento nell'infliggerlo. Il male che inflissero in quei sei giorni non fu in nome della razza, lo fecero in nome della sopravvivenza ma non basta a giustificare quello che avvenne, nè quello che avvenne in seguito.

Abhram Okalom 


(Clotilde Alizzi)

lunedì 26 gennaio 2015

Palestina, una scatola di micetti

“Prendi dei gattini, dei teneri micetti e mettili dentro una scatola” mi dice Jamal, chirurgo dell’ospedale Al Shifa, il principale di Gaza, mentre un infermiere pone per terra dinnanzi a noi proprio un paio di scatoloni di cartone, coperti di chiazze di sangue. 
“Sigilla la scatola, quindi con tutto il tuo peso e la tua forza saltaci sopra sino a quando senti scricchiolare gli ossicini, e l’ultimo miagolio soffocato. Fisso gli scatoloni attonito, il dottore continua “Cerca ora di immaginare cosa accadrebbe subito dopo la diffusione di una scena del genere, la reazione giustamente sdegnata dell’opinione pubblica mondiale, le denunce delle organizzazioni animaliste…” il dottore continua il suo racconto e io non riesco a spostare un attimo gli occhi da quelle scatole poggiate dinnanzi ai miei piedi. “Israele ha rinchiuso centinaia di civili in una scuola come in una scatola, decine di bambini, e poi l'ha schiacciata con tutto il peso delle sue bombe. E quale sono state le reazioni nel mondo? Quasi nulla. Tanto valeva nascere animali, piuttosto che palestinesi, saremmo stati più tutelati.”
A questo punto il dottore si china verso una scatola, e me la scoperchia dinnanzi. Dentro ci sono contenuti gli arti mutilati, braccia e gambe, dal ginocchio in giù o interi femori, amputati ai feriti provenienti dalla scuola delle Nazioni Unite Al Fakhura di Jabalia, più di cinquanta finora le vittime. Fingo una telefonata urgente, mi congedo da Jamal, in realtà mi dirigo verso i servizi igienici, mi piego in due e vomito.
Vittorio Arrigoni, Gaza, 8 gennaio 2009


A Vittorio Arrigoni

Hanno ucciso tutti
Hanno ucciso tutti
hanno ucciso tutti i minareti
e le dolci campane
uccise le pianure e la spiaggia snella
ucciso l’amore e i destrieri tutti, hanno ucciso il nitrito.
Per te sia buono il mattino.
Non ti hanno conosciuto
non ti hanno conosciuto fiume straripante di gigli
e bellezza di un tralcio sulla porta del giorno
e delicato stillare di corda
e canto di fiumi, di fiori e di amore bello.
Per te sia buono il mattino.
Non hanno conosciuto un paese che vola su ala di farfalla
e il richiamo di una coppia di uccelli all’alba lontana
e una bambina triste
per un sogno semplice e buono
che un caccia ha scaraventato nella terra dell’impossibile.
Per te sia buono il mattino.
No, loro non hanno amato la terra che tu hai amato
intontiti da alberi e ruscelli sopra gli alberi
non hanno visto i fiori sopravvissuti al bombardamento
che gioiosi traboccano e svettano come palme.
Non hanno conosciuto Gerusalemme … la Galilea
nei loro cuori non c’è appuntamento con un’onda e una poesia
con i soli di dio nell’uva di Hebron,
non sono innamorati degli alberi con cui tu hai parlato
non hanno conosciuto la luna che tu hai abbracciato
non hanno custodito la speranza che tu hai accarezzato
la loro notte non si espone al sole
alla nobile gioia.
Che cosa diremo a questo sole che attraversa i nostri nomi?
Che cosa diremo al nostro mare?
Che cosa diremo a noi stessi? Ai nostri piccoli?
Alla nostra lunga dura notte?
Dormi! Tutta questa morte basta
a farli morire tutti di vergogna e di sconcezza.
Dormi bel bambino. 

Ibrahim Nasrallah



Vittorio Arrigoni (Besana in Brianza4 febbraio 1975 – Gaza15 aprile 2011) è stato un attivistagiornalista e scrittore italiano. Sostenitore della soluzione binazionale (uno stato laico e unico per i due popoli) come strumento di risoluzione delconflitto israeliano-palestinese, nonché pacifista, si è trasferito nella Striscia di Gaza per agire contro la presunta pulizia etnica dello Stato di Israele nei confronti della popolazione araba palestinese. Era soprannominato "Vik".


sabato 24 gennaio 2015

Porticello al tritolo!

Ma può essere mai che il paese dei locchi di mare sia diventato la capitale mafiosa del tritolo? 
Così pare.
Porticello avrebbe fornito esplosivo - ottenuto da alcuni ordigni inesplosi risalenti alla seconda guerra mondiale e pescati da Cosimo D'Amato - per fare saltare in aria il magistrato Falcone.
Porticello custodirebbe il tritolo da utilizzare per un attentato al magistrato Di Matteo.
Al di là di questi traffici di cariche, ci chiediamo se Porticello sia un paese mafioso.
Apparentemente no, perché il porticellese tipico è un pescatore che manca giorni e giorni per andare alla nisciuta, che affronta le tempeste, che rischia la vita, che campa della vendita di pescispada, tonni, acciughe.
Questi che vanno a pescare sono i porticellesi che ben rappresentano un paese pulito, spesso onesto, a volte corruttibile - dalla notte dei tempi i paesani sono disposti a cedere il loro voto in cambio di denaro o favori, ma sotto questo profilo nulla di nuovo, succede ovunque. Un paese che è cresciuto, comunque, tra tanti sacrifici.

Ma Porticello è anche altro, e non da ora. Qualche anno fa il Consiglio Comunale di Santa Flavia (di cui Porticello è frazione) fu sciolto per infiltrazioni mafiose, nel DPR del 30 settembre 1991 alcuni nomi sono esposti, altri mancano. Esattamente come Bagheria, che invece è una delle capitali acclamate del fenomeno mafioso - tanto per citare. Naturalmente la comparazione non regge, la sproporzione enorme, ma certamente ogni porticellese in cuor suo sa che il paese non è candido. 
La sensazione è di vedere il bambino beccato con le mani nella marmellata.

Giorgio D'Amato







venerdì 23 gennaio 2015

Je suis Caponata


Alla siciliana la dobbiamo fare. 
Melanzane sotto sale che ci togliamo l'amaro. Tagliate tutte della stessa forma, così le faceva mia nonna. 
Sedano, olive, capperi. Lei, la caponata la faceva cuocere in una casseruola con la salsa, lo zucchero e l'aceto. 
Scrivitelo in testa, il dado lei non ce lo metteva. 
Mi ricordo che ci metteva un cucchiaino di cacao amaro. Diceva che era un segreto, che a fare la caponata glielo aveva insegnato sua madre.
Ma il dado no, quello no, non ce lo metteva. 
Che c'entra con la caponata? 
Ci insultano. Entrano nella nostra cucina senza permesso e rivoluzionano una delle più antiche ricette della tradizione culinaria siciliana.
Il dado, se proprio non ne potete fare a meno, tenetelo nel frigorifero e conservatelo. Tiratelo fuori solo al momento giusto. 
Per noi siciliani, la nostra cucina è aperta ma sacra. Non va violata. 
E quelli della Star hanno proprio esagerato con la loro pubblicità. 
Già con il loro gran ragù ci infastidiscono da anni. 
E noi siamo stati zitti. È anche vero che noi siciliani quando parliamo facciamo sempre vucciria e le parole non le diciamo, noi urliamo. 
E io altrochè se urlerei. 
Dico io - Buttana ri to matri santissima, ma che c'entra il dado nella mia caponata! Voi e tutta la redazione della Star, quelli che scegliete spot e immagini, voi siete teste di sedano (che invece nella caponata ci sta bene!).
Ora ve la preparo io un poco di caponata giusta, come la facciamo noi in Sicilia. Che Santa Rosalia mi aiuti!  
Vengo a trovarvi in redazione, - so che più tardi ci sarà uno dei vostri Consigli di Amministrazione. Sono già in cucina, al lavoro; ne porto cinque secchi pieni fino all'orlo, così la vera caponata la tasterete tutti! Sentite che odore, l'avrete addosso. 
Senza dado. 
Ve l'ho tirata, a sorpresa. 
Je suis la Caponata. 
Se non dite che è cosa buona e giusta vi taglio le mani, a dadi uguali per tutti! Porto con me il coltello più affilato che ho, quello degli arrosti, e vi interrogo ad uno a uno, voglio proprio vedere se con un coltello puntato alla gola non me lo direte - Chi minkia ve lo ha detto di metterci il dado! Faccio una strage per salvare la mia caponata; difendo il mio diritto alla libertà di parola e urlo, urlo a gran voce che il dado non ci va! Lotto con coltello alla mano, pronta ad affettare melanzane e chiunque mi contraddica, e lo scrivo pure, per difendere il mio diritto alla libertà di stampa. E ora non credete che le parole di Francesco possano toccare il mio cuore. Io le mie ricette, me le tengo strette. Noi siciliani ci teniamo alle cose nostre. I milanesi non si sono lamentati se nel loro risotto la Star ci ha messo la salsiccia. Noi siamo pizzuti. La Stefanelli dice che noi siciliani ci abbiamo tanti problemi, io ci dico che è meglio che si sta muta, vada a mettere ammollo il baccalà, i cetrioli sott'olio. Suo marito, che è siciliano come me, lo sa come si fa.
Una bella zuppa di cachì senza dado, che non c'è bisogno di fare brodo, Masterchef lei lo ha già vinto.
Je suis la caponata! Togliamo il dado, aboliamo l'intero spot pubblicitario. Scagliamoci. 
Fuoco e fiamme! 
Vediamo se d'ora in avanti qualcuno avrà più il coraggio di cambiare le nostre ricette, di metterci la crema gialla nella cassata o la mozzarella nello sfincione.
Mia nonna sarebbe fiera di me e pure sua madre e la madre di sua madre. Ora sì che le mie antenate possono riposare in pace.

Nina Tarantino


(AAS ringrazia Daniela Camarda per aver fornito la vena ispiratrice)

Da Piazza Marina al Ponte dell'Ammiraglio (Palermo)


Da Piazza Marina passando davanti alle cancellate in stile liberty di piazza Garibaldi voluta dal Basile e corredata di una delle più belle fontane di Palermo, la fontana del Garraffo, fontana barocca del '600 in cui nome significa abbondante acqua, si giunge per Via Longarini all'angolo destro e basso ove c'è lo Steri, adesso sede del Rettorato di Palermo, una volta palazzo della Santa Inquisizione che tante morti diede nel bel mezzo di quella stessa Piazza. E tagliando per quella corta stradina si giunge in Via Alloro.


Imboccata Via Alloro, verso il mare, girando a sinistra, troviamo un altro splendido palazzo, subito dopo S.Maria degli Angeli detta La Gancia, Palazzo Abatellis sede della Galleria Regionale, secondo esempio di architettura gotico-catalano. Io mi fermerei un po' qui, anzi ci entrerei proprio per andare ad ammirare un capolavoro che ci invidia tutto il mondo. E noi lo abbiamo qui, possiamo andare a trovarlo tutte le volte che se ne ha voglia, omaggiarlo di attenzione e sguardi, seguire quello sguardo sfuggevole, avvolto nel manto azzurro, posare lo sguardo su quelle mani sospese a mezz'aria, quasi una difesa, un avvertimento, una disponibilità.
Il capolavoro assoluto dell'arte rinascimentale è l'Annunciata di Antonello da Messina (Messina 1430-1479).
Lo dipinse in una fase tarda della sua produzione, nel 1476. Si è già affrancato dalla lezione fiamminga che lo vuole attento ai dettagli, ma non nei ritratti, raffigurati a tre quarti. La perfezione dell'ovale e gli occhi perduti nel vuoto, emergono dal manto azzurro che una mano stringe sul seno, l'unica difesa che porge al progetto divino di farne la sua dimora. E' intenta nell' atto di dare una risposta, o è appena andato via l'Angelo, in un atteggiamento riflessivo ed estraniato. Questo lo rende il capolavoro, la mano sospesa in aria aperta sul libro che legge, ha il segno dell'accettazione o dell'attesa per l'Angelo, prima della risposta. Questo dipinto fu inteso da molti non appartenente ad Antonello, fu attribuito al Durer che a Palermo aveva dipinto molti quadri nel 1800. Fu l'intuizione dello studioso Di Marzo che ne fece l'attribuzione ad Antonello ravvisandone i tratti antonelliani dell'opera, soprattutto nel pollice rigido della mano destra.
Ultimi studi datati aprile 2013 da parte dei Beni Culturali di Palermo hanno svelato alcuni misteri: c'è una parte aggiunta in un secondo tempo, il velo che accompagna il volto nella parte destra è stato dipinto in un tempo successivo. Inizialmente si intravedevano i capelli della Vergine, ma un pudore che deve accompagnare la madre del Salvatore del Mondo vuole che non mostri i capelli, Antonello provvide così a nasconderli sotto alcune pennellate di colore. Il libro sul leggio contiene le profezie che la riguardano.
Lasciamo Palazzo Abatellis e Via Alloro all'altezza della Chiesa di S.Maria Della Pietà, svoltiamo alla nostra destra, ci incammineremo per Via Messina Marina fino a Piazza Scaffa. 
Qui troviamo un vecchio ponte, il ponte dell'Ammiraglio (1131) costruito dall'Ammiraglio di Re Ruggero I per permettere il passaggio sul fiume Oreto che a quel tempo aveva la foce lì. La bellezza del ponte sta nei dodici archi acuti che ne sostengono le volte, consentendone  maggiore  capacità statica al peso da sopportare, mentre quelli più piccoli, meno acuti, hanno la funzione di alleggerire il carico e al tempo stesso smaltire la pressione del fiume. Un'opera di alta ingegneria in periodo medioevale.

Su questo ponte si combattè la battaglia tra i Borboni e le truppe garibaldine nel 1860 che permise l'annessione di Palermo al Regno dei Savoia, lì infatti le truppe dei Borboni attesero i Mille di Garibaldi poiché era l'unico ingresso alla città per chi proveniva da Sud. Poco più in là la Chiesa di S.Giovanni dei Lebbrosi. Alto esempio di architettura romanica e araba stupenda assieme alla Chiesa di S. Giovanni degli Eremiti, S.Cataldo in Discesa dei Giudici, nonché la Zisa e la Cuba...ma di questi ne faremo una trattazione a parte.

(Clotilde Alizzi)

giovedì 22 gennaio 2015

Gente di Baària

Io vorrei chiedere a tutti i bagheresi che fanno il diavolo a quattro per il problema rifiuti quali sono i loro immobili a Bagheria, se hanno giardini, e farmici un giretto, sì, perché Bagheria non è solo immondizia, Bagheria è anche ruderi schifosi putridi muffiti e fatiscenti che qualcuno ha anche il barbaro coraggio di chiamare casa e di affittare, ruderi schifosi putridi muffiti e fatiscenti dentro il quale non ci vive il proprietario, no no, ci vive qualche altro povero stronzo o è direttamente disabitato, io vorrei proprio capire di chi sono, questi ruderi, perché anche quello è degrado, ed è pure pericoloso, ed è indecoroso e rende questa città molto più brutta di un cumulo di immondizia, ecco, io vorrei proprio incontrarli i proprietari e chiedergli con che coraggio si lamentano dell'immondizia, che è un problema regionale storico a cui si sta cercando di porre rimedio con difficoltà e scontrandosi col sistema mafioso, con che coraggio, dico, si lamentano dell'immondizia se poi sono proprietari di enormi cumuli di immondizie fatte di mattoni muffa e erbacce, il prossimo che sento lamentarsi dei rifiuti vorrei mi fornisse l'elenco delle sue proprietà e farmici fare un giro, e vedere se sono così perfettini come millantano, perché se questa città pare Baghdad dopo i bombardamenti di qualcuno sarà pure la colpa, e stavolta non è certo di Patrizio, e chissà se tra i miei contatti c'è qualche proprietario di ruderi indecorosi che si sta vergognando, ecco, spero vi vergognate tanto da andare a comprare un cazzo di secchio di vernice e pitturare quello schifo che vi appartiene e che offende gli occhi di tutti, pure i miei, e almeno state zitti da oggi se siete i primi porci a costruire case su case su case su case senza finirle, ché 'sta città sembra un museo di scheletri, sembra l'incompiuta, altro che Baarìa.


Tamara Carone

mercoledì 21 gennaio 2015

Diane Arbus

Ho pensato a quanto assolutamente ordinaria sia una coppia di gemelli, potete immaginare una società nella quale i gemelli siano considerati un tabù? E' strano pensare quali aberrazioni le società decidano di onorare e quali decidano di rifiutare, in alcune culture i bambini mongoloidi sono considerati degli dei, in altre le donne pazze sono considerate streghe. 

Così Diane Arbus presenta il suo lavoro, il tema del doppio, così caro alla cultura del XX secolo; viene trattato con delicatezza, anche se finisce per provocare nello spettatore un senso di disagio dovuto al contrasto tra la normalità dell'immagine e l'eccezionalità dell'evento rappresentato. Straordinaria è la capacità di Diane Arbus di costruire l'immagine e di renderne l'aspetto crudo senza forzare i soggetti ritratti.

Le due gemelle sembrano unite tra di loro, solo a uno sguardo attento è possibile riconoscere il braccio sinistro della ragazza di sinistra, la frontalità dell'inquadratura e il vestito scuro annullano la profondità,  la linea delle spalle risulta unica congiunge i due corpi. Allo stesso tempo i due volti risultano differenti per le loro espressioni: la ragazza di sinistra ha le palpebre e la piega delle labbra leggermente abbassate, mentre quella di destra ha gli occhi più aperti e le labbra si alzano in un accenno di sorriso. Anche in questo caso la fotografia si limita a documentare un fatto, l'esistenza di due gemelle in una cittadina americana. In realtà rivela la sua capacità di penetrare la facciata delle cose, costringendo lo spettatore a riflettere sulle diverse percezioni del mondo e sulle sue apparenze. La poetica di Diane Arbus si sposa con il reportage, l'occhio spietato registra le persone e gli eventi passando dal grottesco al drammatico al patetico, dando visione del lato oscuro dell'esistenza umana individuabile anche nella più banale quotidianità. L'opera di Diane Arbus sta tra ritrattistica tradizionale e reportage contemporaneo. Arbus sceglie i suoi soggetti all'interno di un particolare tipo umano, quello che per caratteristiche fisiche o sociali non rientra nel concetto di "normalità". Dalle fotografie di Diane emerge un'umanità che trascende il sentimento comune avvertito dall'osservatore comune nei confronti di chi appare fisicamente diverso. Ogni suo scatto ha la capacità di entrare nell'animo dei soggetti. "Io mi adatto alle cose malmesse, non mi piace mettere ordine alle cose, se qualcosa non è a posto davanti a me, io non la metto a posto. Mi metto a posto io". Gli scatti vanno dai cosiddetti freaks ai ritratti di personaggi famosi, dai nudisti a gente normale immortalata per strada che raccontano un'inquietudine.
"Una fotografia è un segreto che parla di un segreto, più essa racconta, meno è possibile conoscere". 
Diane si dedica ad una ricerca muovendosi attraverso  luoghi che da sempre erano per lei oggetto di divieti, esplora sobborghi poveri, trova il centro del proprio interesse nell'orrorifica attrazione che sente verso i freaks, l'indagine è volta ad esplorare il variegato quanto negato mondo parallelo a quello della normalità, fatto di nani, giganti, travestiti, omosessuali, nudisti, ritardati mentali e gemelli ma anche gente comune colta in atteggiamenti incongrui che rende le immagini uniche. Le fotografie della Arbus sono universali e sorprendenti, articolano la visione singolare di una delle più importanti artiste del xx secolo; la forza dei suoi soggetti e del suo stesso approccio alla fotografia vennero considerati rivoluzionari.
"Molte persone vivono nel timore che possano subire qualche esperienza traumatica.
I freak sono nati con il loro trauma. Hanno già superato il loro test, nella vita. Sono degli aristocratici."

(Peppa Modotti)

martedì 20 gennaio 2015

L'arte spiegata ai non vedenti: la nascita dell'Impressionismo

In questo periodo dell'ottocento c'erano stati pittori assai innovativi, fecero cose che la gente non ne aveva visto mai, attipo le ballerine che abballano, attipo le scampagnate con chiddi che manciavano a frittata e a pasta col forno, attipo i mbriacuni che vivevano vino pigghiato dal bidone di venticinque litra. I critici guardavano i quatri e dicevano: matri, questi cosa vogliono rappresentare?
Ma soprattutto si ponevano una domanda: di nuatri critici non ce ne frega un cabbaso a nessuno, nuatri veniamo annominati solo quando ci inventiamo un nome ad una corrente. Picciò, sfurniciamoci, vediamo di fare travagghiare i cervelli che a questi quadri li dobbiamo correntare.
Si misero a taliare e cominciarono a scrivere nei blocchetti notes alcuni appunti:
I ballerinari.
'U coreografismo.
I ballettini prima di Heather Parisi.
'A matri di Carla Fracci.
'A suaru di Lorella Cuccarini.
La cosca di Maria De Filippi.
Qualcuno nominò pure a Nino 'u ballerino: chi ci trasi, quello abballa al corso finocchiaro aprile ma la sua mansione è un pani ca meusa. Bene, niente Nino 'u ballerino.
I mieusari.
Statti zitto.
Io questa corrente la chiamasse "corrente di fine secolo". 
Fransuà, ci dovettero rispondere, ma che bignè stai dicendo?
Allora la chiamiamo Pennellatismo, perchè si capiscono tutti i colpi di punzello.
Insomma, fissarie ne venivano sparate a tignitè.
A risolvere i probblemi dei critici intervenne il solito Degas che aveva fatto un'altra cosa a novità. 
Si presentò alla mostra con una statua che tutti, appena la videro, si toccarono ddà sutta.
E cu è chist'australopiteca? Migna, pare quella scimmia di tò nonna.
Non offendiamo i parenti che qua finisce a tagliate di tele.
Ma può darsi che fosse parente della Madonna ma ci fecero la minigonna?
No, a minigonna quest'anno non è di moda.
Matri che laria, non si può addolorare, se la guardi per cinque secondi ti scoppano le cataratte, figghiu ri so matri quanto è depresso l'artista, misericordia di Dio qui ci vuole l'esorcista.
La scultura in questioni, mostrava una picciridda nivura, vestita da ballerina con una sottana che forse Degas aveva preso la tenda del bagno. Na funcia di nivura, le gambe storte che tutti cominciarono a recitare:
zoccu ti portaru i morti?
la pupa cu le anche torti.


I critici non si potevano tenere. Uno lo disse. Io me ne vado. E altri pure, nuatri ce ne andiamo appresso a te, questa corrente rimane senza nome, peggio per iddi che fanno opere di scanto e di terrore e di Dario Argento.
Esatto, opere che fanno impressione.
I critici se ne andarono e niente fu deciso.
Forse in quei paraggi c'era un giornalista - che a questa categoria le fissarie gli piacciono assai, e disse: pare sant'Onofrio Piluso. E si mise a recitare l'orazione che pare faccia trovare gli oggetti smarriti.




Santu Nofriu pilusu
tuttu amabili e amurusu
pi li Vostri Santi pila
facitimi stà Grazia

diccà a stasira.

Sant'Onofrio forse è intervenuto, forse no, ma il giornalista si ricordò l'ultimo insulto dei critici e trovò il nome per la corrente pittorica.
Ma di questo fatto non c'è certezza.

Giorgio D'Amato