E’ stata replicata l’opera di Maurizio Padovano “La Frontiera”
interpretata da un gruppo di studenti del Liceo Classico “
Francesco Scaduto” di Bagheria con l’eccellente regia di Rinaldo
Clementi. Questa seconda volta è andata pure meglio della Prima che
era stata rappresentata nella Cavea dell’Istituto il mese scorso. A
mio giudizio l’opera ha reso di più, è andata ben oltre, la
funzione didattica che molti gli hanno, probabilmente, attribuito (considerando la presenza del pubblico formato prevalentemente da
insegnanti dell’Istituto e dai parenti dei ragazzi protagonisti).
Un ottimo prodotto questo lavoro, anche per l’impegno dei ragazzi stessi, bravi tutti, in particolare gli interpreti maggiori: Francesco Carollo e Francesca Padovano, rispettivamente per il personaggio del Giudice e della Donna indigena che lui accoglie e cura nella sua casa (che rappresenterà agli occhi di chi poi lo accuserà di tradimento, testimonianza della sua colpevolezza). La Frontiera è una riflessione articolata sugli eventi drammatici che si stanno accumulando sulla nostra contemporaneità, le guerre del Medio Oriente, con le sue tragiche conseguenze sulla popolazione di quei luoghi; conseguenze che producono fenomeni a catena che non si fermano sulle coste dell’Africa, come tanti vorrebbero. La catena degli eventi è trascinata non dalle notizie (che per la maggioranza dei casi ci lasciano indifferenti) di uomini privati della libertà, confinati in corridoi di terra, privati perfino di uno stato e di una cittadinanza, torturati e resi prigionieri, ma ci arrivano insieme agli uomini fuggiti, per fortuna e per paura, per speranza forse, imbarcati su relitti di barche, su legni e gommoni, che si disperdono e che si annegano e dei quali spesso ci giungono gli stracci, le scarpe - più resistenti dei loro corpi umani che necessitano del respiro per sopravvivere. Nell’opera, la colpa del Giudice consiste nel non voler riconoscere in questi uomini e in queste donne che si accalcano alla Frontiera dei nemici, ma solo persone in cerca di un luogo più sicuro in cui poter vivere. Emerge con forza nel testo l’inganno a cui noi contemporanei, partecipi della tragedia che si sta consumando nel mediterraneo siamo soggetti, costretti a guardare questi uomini e queste donne che lottano contro la morte e provano a raggiungere le nostre coste, se mai le raggiungeranno, come nemici, ora, perfino come terroristi. Un racconto convincente, quasi una profezia. Esso ci mostra in che modo il volto pacifico del nomade, in quel caso, si trasforma, (attraverso le parole pronunciate dal generale ), nel volto minaccioso del barbaro che ci insidia, che minaccia la nostra pace, la nostra cultura, il nostro paese; e come sia sbagliato innalzare noi stessi, i nostri corpi e le nostre menti, in forza a questa menzogna, come muro. Padovano si è fatto aiutare da Eschilo, per dirci questo. L’antico drammaturgo, ci dice il coro, ci annuncia che se perdere la memoria ha una sua ragione, pure nella memoria si cela la risposta alle nostre domande, lei ci viene in soccorso per smascherare l’insidia più grande che trasforma le vittime in colpevoli e i popoli inermi in eserciti agguerriti. Ho visto sfilare davanti a me una tesi insolita, da tempo evitata, la “questione palestinese” ormai sembra cosa superata, annullata da altre storie di ghetti e di massacri. E mi è sembrato di intravedere in questo, se non l'origine, almeno il fondo. Nessuno parla più di Palestina e dei palestinesi. L’onda si allarga e i colpevoli sono “loro” i migranti verso cui impareremo a costruire una nuova frontiera, un muro più poderoso di quello che serviva a fermare il comunismo russo. E questo mi serve per dire che su quella scena ho visto aggirarsi, fra gli studenti del Liceo, nientepopodimeno meno che Brecht! che ci ricorda che lo spettatore non deve immedesimarsi durante la rappresentazione. (ahimè, l'ho fatto!) Era presente ovunque nella narrazione infarcita di numerosi elementi parodistici che accompagnavano la sceneggiatura “estraniante” tipica del “teatro epico” che il drammaturgo tedesco riteneva essere necessaria per attivare il “distacco” critico. Bello spettacolo, insomma, per me, oltre che interessante. Mi ha ricordato una poesia che vorrei aggiungere a questo commento, una poesia che parla di migranti e che ho sentito evocare sulla scena, quando si fa menzione alle “scarpe” che galleggiano nel mediterraneo.
Un ottimo prodotto questo lavoro, anche per l’impegno dei ragazzi stessi, bravi tutti, in particolare gli interpreti maggiori: Francesco Carollo e Francesca Padovano, rispettivamente per il personaggio del Giudice e della Donna indigena che lui accoglie e cura nella sua casa (che rappresenterà agli occhi di chi poi lo accuserà di tradimento, testimonianza della sua colpevolezza). La Frontiera è una riflessione articolata sugli eventi drammatici che si stanno accumulando sulla nostra contemporaneità, le guerre del Medio Oriente, con le sue tragiche conseguenze sulla popolazione di quei luoghi; conseguenze che producono fenomeni a catena che non si fermano sulle coste dell’Africa, come tanti vorrebbero. La catena degli eventi è trascinata non dalle notizie (che per la maggioranza dei casi ci lasciano indifferenti) di uomini privati della libertà, confinati in corridoi di terra, privati perfino di uno stato e di una cittadinanza, torturati e resi prigionieri, ma ci arrivano insieme agli uomini fuggiti, per fortuna e per paura, per speranza forse, imbarcati su relitti di barche, su legni e gommoni, che si disperdono e che si annegano e dei quali spesso ci giungono gli stracci, le scarpe - più resistenti dei loro corpi umani che necessitano del respiro per sopravvivere. Nell’opera, la colpa del Giudice consiste nel non voler riconoscere in questi uomini e in queste donne che si accalcano alla Frontiera dei nemici, ma solo persone in cerca di un luogo più sicuro in cui poter vivere. Emerge con forza nel testo l’inganno a cui noi contemporanei, partecipi della tragedia che si sta consumando nel mediterraneo siamo soggetti, costretti a guardare questi uomini e queste donne che lottano contro la morte e provano a raggiungere le nostre coste, se mai le raggiungeranno, come nemici, ora, perfino come terroristi. Un racconto convincente, quasi una profezia. Esso ci mostra in che modo il volto pacifico del nomade, in quel caso, si trasforma, (attraverso le parole pronunciate dal generale ), nel volto minaccioso del barbaro che ci insidia, che minaccia la nostra pace, la nostra cultura, il nostro paese; e come sia sbagliato innalzare noi stessi, i nostri corpi e le nostre menti, in forza a questa menzogna, come muro. Padovano si è fatto aiutare da Eschilo, per dirci questo. L’antico drammaturgo, ci dice il coro, ci annuncia che se perdere la memoria ha una sua ragione, pure nella memoria si cela la risposta alle nostre domande, lei ci viene in soccorso per smascherare l’insidia più grande che trasforma le vittime in colpevoli e i popoli inermi in eserciti agguerriti. Ho visto sfilare davanti a me una tesi insolita, da tempo evitata, la “questione palestinese” ormai sembra cosa superata, annullata da altre storie di ghetti e di massacri. E mi è sembrato di intravedere in questo, se non l'origine, almeno il fondo. Nessuno parla più di Palestina e dei palestinesi. L’onda si allarga e i colpevoli sono “loro” i migranti verso cui impareremo a costruire una nuova frontiera, un muro più poderoso di quello che serviva a fermare il comunismo russo. E questo mi serve per dire che su quella scena ho visto aggirarsi, fra gli studenti del Liceo, nientepopodimeno meno che Brecht! che ci ricorda che lo spettatore non deve immedesimarsi durante la rappresentazione. (ahimè, l'ho fatto!) Era presente ovunque nella narrazione infarcita di numerosi elementi parodistici che accompagnavano la sceneggiatura “estraniante” tipica del “teatro epico” che il drammaturgo tedesco riteneva essere necessaria per attivare il “distacco” critico. Bello spettacolo, insomma, per me, oltre che interessante. Mi ha ricordato una poesia che vorrei aggiungere a questo commento, una poesia che parla di migranti e che ho sentito evocare sulla scena, quando si fa menzione alle “scarpe” che galleggiano nel mediterraneo.
I
Scarpi a mmari
A mmari
ci sunnu pisci strani, su pisci ‘ca un ciatanu, ma parranu.
Arrivanu
ri notti, umma umma, scappati di li peri, senza summa,
Su scarpi, parranu, vu rissi;
Cuntanu
ri peri sanguinanti, ri siti, ri disertu, ri fami e di duluri,
Ri sonnu
persu, e ri vuccuni amari, ri casi sdisulati, ri picciriddi rutti…..
Su scarpi
strani, sti scarpi ammari.
Cuntanu
stori can u’ vogghiu sintiri.
Arrivanu!
Curriti! Rici a genti ri mari, e ‘nveci ri scappari accurrinu chi rriti.
Eppuru
sunnu cosi ri scantari !
Rapunu
vucchi comi piscicani.
Si
mancianu l’aria frisca ra matina, u suli - su come ‘na fucina e abbrucianu lu
cori.
Si li
guardi ti penti ri essiri fra tanti - chiddi chi talianu ri luntanu,
E un
portanu mancu un coppu manu
Talianu e
ricunu: Cu su? Chi bonnu ri nuautri? Chi c’intramu?
A nostra
paci nui nun la pristamu!
Allura i
scarpi ammari s’arrabbianu, tagghianu li riti comu spati e
U sangu
s’arririversa ‘nta li strati.
Rosa La Camera