lunedì 30 gennaio 2017

La bisbetica domata di William Shakespeare, recensione di Emanuele Scaduto


Scrivere una recensione dignitosa su uno dei molti testi di Shakespeare è un’operazione complicata e non priva di imprevisti. I lettori del grande drammaturgo inglese si dividono in due categorie: quelli che lo leggono e quelli che se ne fregano, che cercano altre cose, più contemporanee, più empiriche.
Il titolo dell’opera è, in inglese, The Taming of the Shrew. Nella sua traduzione italiana diventa La bisbetica domata. La commedia apparse per la prima volta nel 1623, nella sua edizione in-folio. Il problema storiografico non è indifferente: è stato accertato che nel 1607 avvenne la pubblicazione dell’omonima commedia (che omonima, nella forma e nello stile, non è) differente dall’originale soltanto per un articolo. Il titolo, infatti, è The Taming of a Shrew. Le differenze tra le due commedie non sono poche: l’originale, infatti, è molto più complessa e articolata. A Shrew è ambientata ad Atene, The Shrew a Padova. L’introspezione psicologica dei personaggi, in The Shrew, è completa e lineare. La bisbetica ha dunque due sorelle nella “falsa” commedia e una, Bianca, in quella “vera”. Le ipotesi più affidabili sottolineano l’importanza (marginale) della commedia storpia per capire al meglio la datazione delle commedie Shakespeariane all’interno di quella piccolissima parentesi storica. A Shrew, infine, potrebbe essere non altro che una semplice fonte, o protostoria, da cui Shakespeare avrebbe potuto attingere.
La dimensione matrimoniale di cui si parla possiede qualcosa di inquietante: la donna-oggetto, quella petulante e cattiva, capace di muovere accuse contro ricchi gentiluomini che, certamente, si muovono in un ambiente di totale superiorità intellettuale e fisica. Non c’è bisogno di andare oltre, la presentazione degli altri personaggi è superflua. La commedia intera si muove a stento, fatica a trovare qualcosa di meritevole nei suoi principali interlocutori. E’ il limbo geniale e ustionante di una strada a senso unico: l’ironia. La conversazione è a volte obliqua, non di facile comprensione; i monologhi di Caterina arrivano a superare la pagina. L’unico elemento inequivocabile risiede nella fotografia letteraria che Shakespeare ci ha gentilmente regalato: l’eleganza della sorpresa, il gusto delicato di un colpo di scena che non ti prende alla sprovvista. Il problema dei sessi è affrontato con audacia. Sembra che la censura non abbia intaccato il lavoro del commediografo e questa, signori miei, è pura tristezza. Le donne come anti-eroe, così tanto tralasciate da permettere alla società civile di non porsi valide domande sui trattamenti che venivano riservati all'altro sesso in un’epoca, quella di Elisabetta, la regina vergine, in cui (ecco il paradosso) il rispetto della vita umana poteva risolversi in modi molto più elegiaci.

"SLY: Bene, bene. Voglio vederla. Andiamo, signora moglie, siedi al mio fianco e lascia che il mondo vada per suo conto. Non saremo mai più giovani di adesso."

Come non pensare, e rimandare, alla Sonata a Kreutzer di papà Tolstoj?

Emanuele Scaduto