giovedì 28 maggio 2015

La città della gioia - Recensione di Serena Giattina

Ma che gioia!?! Generalmente non infierisco contro i libri, nemmeno contro quelli che non mi entusiasmano particolarmente, perché rispetto gli scrittori e cerco di immedesimarmi nello sforzo che compiono per comunicare qualcosa attraverso la loro opera. Ebbene, con Lapierre non ce la faccio. Se lo avessi davanti, gli chiederei: Lapierre, anzi Dominique, perché?
Con tutta la buona volontà, non riesco a trovare niente, ma proprio niente, di salvabile in questa sua fatica. Sì, fatica. Per lo scrittore, che ha partorito il libro in questione a seguito di anni trascorsi in India, e per il lettore che deve fare i conti con un resoconto più noioso di un documentario muto. Almeno, però, in un documentario c’è il gusto di vedere immagini più o meno accurate, nel caso del lavoro di Lapierre, non solo lo scenario che ci si presenta alla vista non riesce a far entrare chi legge nei luoghi descritti, ma ha l’aggravante di un atteggiamento missionario davvero irritante nel suo moralismo.
I poveri indiani, pur non avendo niente, ma proprio niente, riescono a vivere, ad amare e perfino a gioire mentre tu, abbietto uomo occidentale, devi vergognarti del tuo materialismo che t’impedisce di apprezzare i veri valori. In linea di massima il messaggio è questo.

In cosa consiste la trama? Le vicende parallele di due protagonisti, Paul Lambert, un prete francese che si trasferisce a Calcutta per elevarsi spiritualmente stando a contatto con i miseri abitanti di una bidonville (nel libro, tanto per confondere le menti che hanno minor dimestichezza con la terminologia indiana, si chiama slum) e cercando, comunque, di ricambiare gli insegnamenti morali dei poveri, compito che non gli richiede chissà che impegno, perché coloro che si rivelano essere suoi maestri, salvo nei casi medici, rifiutano l’assistenzialismo e vogliono evolversi da sé – come dimostra una giovane coppia che, con grande sacrificio, riesce ad accumulare il necessario per lasciare Calcutta e tornare a vivere nelle campagne bengalesi per condurre una vita contadina, socialmente più dignitosa -. L’altro protagonista è Hasari Pal, un contadino che si trasferisce con la famiglia a Calcutta in seguito alla catastrofe economica che si abbatte nella sua vita per via della prolungata siccità che ha rovinato i suoi campi. Solo sul finire del libro Hasari e Paul s’incontreranno – il contadino che per un periodo ha vissuto sul marciapiede, poi grazie al lavoro di uomo-risciò può permettersi una baracca in una bidonville, questa a sua volta verrà distrutta perché sorgeva sulla futura linea ferroviaria e allora, grazie a un amico, Hasari trova alloggio in una baracca alla Città della Gioia, ovvero la bidonville in cui abita il prete -. Il loro incontro non aggiunge niente di nuovo al racconto. In realtà, la figura stessa di Hasari è superflua: se l’intento dell’autore era quello di offrire due punti di vista diversi – quello occidentale e quello locale – non è andato a buon fine. Il giudizio dello scrittore si sente in entrambe le voci; inoltre ha dato vita a talmente tanti personaggi che raccontano il loro vissuto, non dissimile da quello di Hasari, che il contadino è solo uno in più (e più prolisso). Si giunge faticosamente all'ultima pagina, non perché la narrazione non sia scorrevole, ma perché oltre alla fotografia della miseria non c’è proprio niente, al punto da chiedersi, chiudendo il libro: e allora? Con la sgradevole sensazione di essere stati raggirati nel riguardare lo stemmino Best Seller in copertina.

Serena Giattina