martedì 28 luglio 2015

Sulla peste dell'insonnia a Macondo e sul perché abbiamo bisogno delle parole

“Sono stato e forse sarò sempre attratto da tutte le cose che può fare la lingua”, cantano i Marta Sui Tubi in Cinestetica, in quel caso riferendosi all’organo fonatorio – che poi sarebbe il significato dal quale, per metonimia, deriva quello di lingua come linguaggio, un mondo affascinante che davvero mi ha sempre attratto. Non sono mere speculazioni: studiare il linguaggio è studiare il pensiero. Quando in Cent’anni di solitudine la malattia dell’insonnia priva tutti i personaggi di Macondo della memoria, José Arcadio Buendía tappezza tutto il paese di etichette perché gli abitanti si ricordino il nome delle cose e la loro funzione – senza il mondo rischierebbe di smettere di funzionare (quanta angoscia crea in quel passo la prospettiva di un futuro senza ricordi, senza parole, in cui dimenticati i nomi e le funzioni dei mezzi di sussistenza tutto quello che è stato costruito dal nulla crollerebbe perché non si saprebbe più lavorare e procurarsi di che vivere). Il nostro linguaggio funziona proprio così: cerca di categorizzare l’immensa realtà che ci circonda, assegnando un nome agli oggetti, formando classi e sottoclassi che stanno tra loro in una complessa rete di relazioni.
Dunque la lingua non serve solamente a comunicare ma anche a organizzare il nostro pensiero. E c’è di più: studi recenti rivelano che potrebbe essere il linguaggio a influenzare il pensiero e non viceversa. Famosa in tal senso è l’ipotesi di Sapir-Whorf, enunciata dopo studi sulla grande varietà delle lingue del mondo, ad esempio presso popoli amerindi che indicano il futuro con un gesto della mano all’indietro, perché non lo conosciamo ed essendo invisibile è alle nostre spalle, mentre il passato è davanti a noi, perché lo conosciamo e quindi possiamo vederlo. Più di recente, si è visto come nel descrivere una scena come una donna che cammina verso una macchina o un uomo che va in bicicletta verso un supermercato monolingui tedeschi tendono a menzionare la meta dell’azione, perché hanno una visione olistica della realtà, mentre monolingui inglesi con più probabilità dicono semplicemente “una donna sta camminando” o “un uomo sta andando in bicicletta” senza specificare la meta. Ciò deriva dal fatto che la forma progressiva, dove applicabile, è obbligatoria in inglese, ed essa “zooma” sull’azione tralasciando la meta. 
Secondo Whorf “le categorie e le tipologie che individuiamo nel mondo dei fenomeni non le troviamo lì come se stessero davanti agli occhi dell'osservatore; al contrario, il mondo si manifesta in un flusso caleidoscopico di impressioni che devono essere organizzate dalle nostre menti, cioè soprattutto dai sistemi linguistici nelle nostre menti. Noi tagliamo a pezzi la natura, la organizziamo in concetti, e nel farlo le attribuiamo significati, in gran parte perché siamo parti in causa in un accordo per organizzarla in questo modo; un accordo che resta in piedi all'interno della nostra comunità di linguaggio ed è codificato negli schemi della nostra lingua”. Insomma, per riuscire a capirci qualcosa del mondo, bisogna dissezionarlo e farlo entrare in categorie, a patto che queste siano condivise. E questo nonostante il fatto che, non importa quale grado di complessità raggiungano le lingue, l’insieme dei concetti sarà sempre più grande di quello delle espressioni possibili. Ci sarà sempre un margine di ineffabilità che però un istinto atavico di categorizzazione ci spinge a volere forzare. E forse chi scrive pretende di sfuggirgli per quanto gli sia possibile, di sottrarre parole scelte dal mare magnum dell’indicibile per esprimere anche concetti difficilmente codificabili in parole. Siamo tutti un po’ José Arcadio Buendía, andiamo in giro a attaccare etichette.

Valeria Balistreri