venerdì 20 novembre 2015

EVERYMAN, di Philip Roth

“Perse conoscenza sentendo tutt'altro che abbattuto, tutt'altro che condannato, ancora una volta impaziente di realizzare i propri sogni, ma ciò nonostante non si svegliò più. Arresto cardiaco. Non esisteva più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato nel nulla senza nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio”. 
Ogni uomo. Qualunque uomo. Tutti pensiamo alla morte durante la nostra vita. Io, tu, noi, così il protagonista. Dentro pensieri costanti che puzzano di morte, fallimenti, pentimenti; fuori tre ex mogli tradite e tre figli: i primi due - maschi - che portano rabbia verso di lui e una femmina che lo adora. L'invidia per il fratello. Il libro è la storia della sua vita sull'altalena del tempo: un avanti e indietro del raccontare attraverso un flashback narrativo. Comincia con la celebrazione del suo funerale, un cimitero, un becchino; pagine che si colorano di nero. Motivo portante del libro è la morte di tutte le cose che ne segnano la fine stessa ma ne delimitano e stabiliscono una fine. Il tempo che passa distrugge tutto, il corpo e la mente ancora desidera, combatte, non si arrende. Fino all'ultimo battito. Poi il cuore si ferma. La morte libera dal peso dell'esistere. Il fine è la fine? Ogni uomo lotta col proprio finito, materia e corpo che nasce e muore. Solo di questo abbiamo certezza. Lo stesso vivere ci avvicina alla morte e il tempo ci invecchia cambiando il nostro corpo, la malattia ci avvicina a un limite umano fragile e precario e rende valore massimo al nostro stato di salute. La malattia diventa avversario, sfida continua, lotta per aggrapparsi alla vita. La vita che ci cuciamo sopra e la vecchiaia, e la malattia che scioglie punto per punto fino all'ultimo, quello della morte. E la morte fa parte della vita anche se sembra così innaturale e ingiusta. Il protagonista si sente schiacciato e impotente, si rende conto di non essere l'uomo di una volta, di aver perso tutto: passione, desideri anche quello sessuale, di aver perso vitalità. Rimpianti, ricordi, solitudine, amarezza per il suo egoismo di uomo gli conferiscono una dimensione vera, viva anche se vicina alla morte. 
“Scendeva dalla macchina nella strada che portava all'oceano e sedeva su una delle panchine rivolte verso la spiaggia e il mare, quel mare stupendo che non aveva fatto altro che cambiare senza cambiare mai da quando lui era solo un ragazzino tutt'ossa che sfidava i cavalloni. Era la stessa panchina dove la sera andavano a sedersi i suoi genitori e i suoi nonni…”. Così, lentamente, la vita gli corre via tra le dita come gli ultimi granelli di quella sabbia. 
Nessuna speranza. Il fuoco della vita si spegne. In una sepoltura.

Nina Tarantino