A parlare di certi libri si fa male, fa male prima di tutto a chi ne parla; ma non è certo chiudendo gli occhi che si cancella la volontà di chi il libro lo ha scritto; e tu hai proprio la sensazione che lo ha scritto perché la vuole vinta lui; perché lui non è uno stupido, non lo è mai stato, uno di quelli che sa usare la cautela e si è formato al comando; uno di quelli che non stenta quando deve esprimere un opinione, che non gli trema la mano quando firma gli autografi, che non si intimidisce davanti agli spettatori, e ce ne sono tanti, che per curiosità o per devozione sono venuti ad ascoltarlo, e lui è lì con il suo vestito grigio argento, come i suoi capelli, impeccabile, la cravatta blu, e le mani fini e la retorica dell’avvocato e la voce altera quanto basta.
E gli aperitivi assortiti e i calici di vetro pronti per dissetare con vino buono.
Il contenuto del libro pare parli di "ravvedimento"; certo l'intervista rilasciata alle Iene non diceva affatto quello: era una dichiarazione di estraneità. Io piuttosto la leggerei come un tentativo di "revisionismo", la volontà di "trasfigurare" la realtà mettendola sotto un'altra luce, la luce opaca delle mezze verità; quelle che passano facilmente perché edulcorate, intrise come sono dalla narrazione dei patimenti di chi ha, si, fatto del male, ma solo e sempre per forza maggiore; di chi si è trovato a fare questo senza volerlo, quasi suo malgrado. Resta il fatto che queste persone solo incidentalmente si sono trovate a pagare un prezzo per il male fatto, col sangue di tanti, colpevoli e anche innocenti, in quanto abituati a scamparsela in tante occasioni, protetti dalla rete di affiliazione con il potere politico e dal riconoscimento sociale. Diciamo che il riconoscimento qualche volta è forzato, altre volte no; tante volte è ottenuto attraverso l'alone santificante del padrino-patriarca che assolve il ruolo sociale di esaudire i "desideri" e le preghiere dei propri devoti; un ruolo sociale talmente forte da lasciare segni perfino in quelli che questo potere lo disconoscono e lo evitano; un alone frammisto di pietismo e ammirazione, simile a quello provocato dalle stimmate sanguinanti del Santo, che in questo caso è il Mafioso. Quello che sfugge nel ragionamento della gente, che si vede davanti non un "pentito", che ha collaborato con la legge ed ha ammesso le sue responsabilità, prima di quelle degli altri, ma un ravveduto, che non rivela niente e nega perfino l'evidenza, è che questi "ravveduti", anzi Illuminati dallo Spirito, non hanno a questo punto della loro vita nulla da perdere! anzi hanno ottenuto tutto quanto era stato loro possibile ottenere: potere e denaro che continuano a godersi e di cui anche gli eredi usufruiranno; sebbene fra i suoi eredi ci siano pure quelli che hanno pagato un prezzo. Resta il fatto che questi non saranno mai dei miserabili straccioni, come molti dei piccoli mafiosi affiliati o conniventi; bensì erediteranno patrimoni che daranno lustro nei secoli a venire alle loro discendenze; non tutto è registrato dai notai, non tutto risulta ottenuto tramite l'attività mafiosa; i prestanome sono tanti, tanti sono quelli disponibili a raccattare le briciole, e poi, la gente dimentica presto i misfatti, mentre non può non continuare a vedere il potere che si dipana e si materializza davanti ai loro occhi sotto forma di privilegi e il denaro che si tramanda da generazioni in generazioni e che continuerà a dare loro potere e possibilità. E' già successo; sono tanti i nomi illustri anche a Bagheria che vantano proprietà di ville e feudi ereditati da un passato di mafia che ora, in parte, viene ancora vissuto e goduto dagli eredi con disinvolta ed aristocratica superiorità. Sono diversi i Michelangelo Aiello, per dirne uno, che hanno lasciato alle loro spalle e ai loro eredi di che vivere, mentre alla città e al territorio in cui sono vissuti hanno lasciato solo sfacelo e distruzione .
Non a caso ho citato Michelangelo Aiello; dietro il potere di questo uomo e della sua vasta famiglia, fatta di numerosi cugini e discendenti, di cui uno, Isidoro Aiello, era il proprietario di una villa settecentesca a Bagheria, Villarosa, nella contrada che ne ha preso il nome, e che dopo la lottizzazione abusiva, è divenuta un ammasso di strade e case elevate senza un piano regolatore, in parte espropriato con un accordo per la costruzione di alcune scuole poste proprio davanti il Palazzo che lo occludono alla vista, come esemplare sfregio alla città e ai suoi abitanti che nulla contano a cospetto del potere mafioso. Ebbene si racconta che l’uomo sia morto di crepacuore dopo l’arresto, come si racconta che le sue ricchezze come imprenditore e come proprietario terriero non sono nate da una vecchia storia di campieri e di guardiani del feudo, ma da una “trovatura”, come in ogni favola che si rispetti, la scoperta di un tesoro, una secchia di monete d’oro che una discendente avrebbe trovato in campagna, in modo del tutto casuale, baciati dalla fortuna, dunque, e dai meriti certamente che la “buona sorte” ha voluto premiare in questi molto onorevoli antenati di questa città delle Ville.
Rosa La Camera