mercoledì 30 marzo 2016

Chissà come dicono minchia in Malesia, recensione di Valeria Balistreri

Minchia, in partenza per la Malesia, un siciliano a vent’anni da solo, in compagnia solo delle sue valigione Paris Hilton e di aspettative non proprio chiare su quello che troverà una volta arrivato. E’ così che comincia questo romanzo, a settemilanovecentoquaranta chilometri da casa, e siamo ancora a metà strada. Anche il lettore non sa bene cosa aspettarsi da questo viaggio, ma si trova subito dentro un incipit fulminante, strampalato e ironico che ci racconta un po’ dell’Italia, di chi siamo. Forse non è qui che il protagonista aveva preventivato di essere ma ci si ritrova in questo momento, davanti l’ignoto. Minchia!, esclama, eppure non si tira indietro. Tutto il viaggio sarà un buttarsi a capofitto nelle cose, dalle partite di pallone sotto la pioggia con i ragazzi del posto ai rapporti con le persone, dalle escursioni al cibo – è lì che cade l’ultima barriera dello schizzinoso protagonista. E non che difficoltà non ce ne siano, ma non c’è tempo per lagnarsi: c’è la vita, la vita da prendere a morsi, così si può anche urlare e correre e prendersi per mano con i compagni di viaggio che per due mesi diventano la famiglia. Questo senso di dinamismo si attacca al lettore, che sente anche lui di dovere muoversi, di dover fare qualcosa: e viene voglia di partire anche a lui. Forse i romanzi belli sono anche quelli che cambiano qualcosa nella tua vita, questo ti mette voglia di partire fin dalla prima descrizione di Kuala Lumpur, la “città-giardino delle luci”, con i ruscelli che scorrono di fianco alla strada e i quartieri tanto diversi fra loro, una città di traffico intenso e toponi che rosicchiano la coda ai gatti ma che contiene luoghi di silenzio, in cui avvicinarsi a una dimensione altra, come le moschee. Spesso, nei vari luoghi che il viaggio tocca, in mezzo al chiasso di un turismo molto occidentale si trovano luoghi come questo, non importa se siano sacri al buddismo, all’islam o all’induismo, si sente di avvicinarsi a qualcosa che non è di questo mondo, che forse è dentro la persona o forse è altro da sé. E la  cosa strana è che questo senso di trascendenza si acquista con un tuffo sempre più a fondo in tutto ciò che è terreno, fisico, come gli odori, le pulsioni, i sapori, la sensazione del caldo, del fresco, dell’acqua sulla pelle. Ed è proprio l’acqua che fa la magia: attraverso l’abluzione è come se si ritornasse a uno stadio primitivo, puro, così spogliati è naturale l’unione carnale con una terra che il protagonista riesce a possedere alla fine. La sua pelle, il suo interno sono stati lavati più volte, adesso è pronto per affrontare tutto con una consapevolezza nuova.

Valeria Balistreri


Fia [...] inizia a muoversi all'interno della grotta, le punte dei piedi allungate, il peso sulle dita. E le mani verso l'alto. Somiglia a un albero, le braccia sono le foglie. Volteggia e sorride. Balla la vita. Oltre Murugan e le altre divinità. Abbracciando la terra. E la vedo volare, uscire da un cerchio aperto nel tetto della roccia formatasi oltre quattrocento milioni di anni prima. Inizia a piovere e l'odore della terra bagnata ci avvolge. Tutto fradicio mi guardo in uno specchio vicino il tempio e vedo una scia rossa sulla mia fronte. Non è ancora stata sciolta dall'acqua, anzi risplende.
(Gualtiero Sanfilippo, Chissà come dicono minchia in Malesia)