Non si sa con esattezza come e quando sia nato il genere satirico a Roma; il grammatico Diomede, vissuto nel IV sec. d.C., definisce la satira un componimento poetico destinato a colpire comportamento e vizi dei contemporanei. Nonostante sia stata per questo motivo alla commedia di Aristofane, la satira è un genere prettamente romano, come affermerà orgogliosamente Quintiliano nel X libro della Institutio Oratoria: satura quidem tota nostra est: la satira, d'altra parte, è tutta nostra.
Dibattuta è anche l'origine del nome, per il quale sono state avanzate diverse ipotesi: da Satyroi (esseri mitici in parte umani in parte ferini), da Satura (salsiccia) o dall'espressione Lex satura (una legge contenente più disposizioni) o da Satura lanx (piatto colmo di primizie di vario genere che veniva offerto agli dei. Quel che è certo è che si trattava di un componimento poetico di contenuto vario e di metri diversi che si esprimeva inizialmente in rappresentazioni miste di recitativo, canto, musiche e danza, che venivano eseguiti in feste religiose legate all'agricoltura.
A Roma i massimi esponenti del genere satirico furono Lucilio (II sec. a.C.) del quale ci sono rimasti solo frammenti,e Orazio (I sec a.C.) che proprio nelle Satirae evidenzierà i concetti di autosufficienza interiore e di misura e di equilibrio derivante, oltre che dall'adesione ad un ideale di vita, anche dal tono medio e dalla cura formale, con il quale si distacca dallo stile lutulentum (fangoso) di Lucidio, nella ricerca di uno stile e di un lessico sorvegliati, frutto – come in tutte le sue opere- di un accurato labor limae.
Anche in epoca imperiale la satira conserva la sua vitalità con Persio (I sec. d.C.) e Giovenale (I\II sec. d.C.) ma si volgerà a fustigare i vizi più che le persone, proprio per la perdita di indipendenza del poeta nei confronti del princeps, il quale concentra ormai nelle proprie mani il potere politico a scapito del senato per cui, al poeta, resta solo l'indignatio e al Senato il problema di decidere come cucinare un gigantesco rombo (Giov., IV) essendo ormai stato esautorato di tutti i suoi poteri.
Isabella Raccuglia