venerdì 23 dicembre 2016

Il presepe, u ricuttaru e l’umanità ricuttara

C’è anche uno spaccato della società civile (o incivile, dipende dai punti di vista e dall’umore del momento) nelle svariate ricostruzioni dei presepi, viventi e non viventi. Per la santa verità, c’è anche di più. Ogni figura è ben rappresentata, sia antica sia moderna. E così sia. 
Nelle rappresentazioni, storiche e di fantasia, non può mancare u ricuttaru, da pronunciare in stretto siciliano in segno di onorevole rispetto della sacra tradizione.
Proprio così. Anche il presepe contempla questa mitica figura che affonda nella memoria millenaria della tradizione secolare (millennaria? secolare? Boh!).
La Sicilia fa la sua dignitosa parte nella storia presepistica (o presepestica o prosopopestica… Boh! Chiediamo aiuto all’Accademia della Crusca) del Paese, senza alcuna fastidiosa prosopopea, ma con arte vera e con i suoi straordinari interpreti che plasmano i personaggi con la creta o li interpretano in carne ed ossa (attenzione ai cani affamati) su un palcoscenico reale (vedi i presepi viventi come quello dei miei amici di Sutera che mangiano, bevono e lavorano preparando per altri da mangiare e da bere per ore ed ore al freddo e al gelo).
Tanti i personaggi che non possono mancare: il pecoraio soprattutto. Un presepe senza pecorai che presepe è? Non ho mai visto un presepe (o presepio) senza pecore né senza un loro padrone. E se ci sono le pecore non possono mancare pure i cani, e di mannara per giunta, che controllano il gregge dall’ovile al pascolo e viceversa (il viceversa è fondamentale anche nell’immobilità del presepe o presepio).
In tutti i presepi ci sono le pecore e se ci sono le pecore ci sono anche le masserie dove le pecore si mungono e dove il latte si lavora o per lasciarlo latte o per trasformarlo e farne formaggio o ricotta o… boh!
E qui entrano in gioco altri personaggi che arricchiscono la tradizione del presepe o presepio. Chi prepara la ricotta? Chi vende la ricotta? Chi trasporta la ricotta? Chi desidera la ricotta? Chi mangia la ricotta? Chi parla di ricotta? Non certo i Re Magi così intenti a non perdere di vista la stella cometa e a non perdere per strada l’oro, l’incenso e la mirra. Non certo il birraio che porta la birra. Non certo il vinaio che porta la vina. Non certo il salsaio che porta la salsa. E non certo lo sbirro che porta la sbirra alla ricerca di chi in taluni fantasiosi presepi (plurale unico che vale per presepio e per presepe) mette elicotteri, fenicotteri e Maradona che non c’entrano nulla con la tradizione. Si assume una grande responsabilità chi si azzarda a inserire nei presepi personaggi di nuova generazione. Attenzione: il social manager non esisteva due millenni fa, così come non esistevano altri mestieri come l’ottimizzatore di siti internet, come il web influencer ecc. (ma con quali sembianze eventualmente modellarli nella creta?).
U ricuttaru invece c’era e nella sua duplice veste. Anzi triplice. C’era il preparatore e venditore di ricotta e c’era anche u ricuttaru nel suo senso lato, inequivocabile, che cogliamo quando indichiamo un soggetto dicendogli: “Sei tutto ricuttaro”.
U ricuttaru – mi sono informato con stretti familiari originari di un paese del siculo entroterra – designa anche chi si vanta assai assai di essere un conquistatore di donne (nel caso di donne che millantano di essere mangiatrici di uomini si dovrebbe parlare, Crusca insegnando, di ricuttara). 

Con questa definizione definiamo pure – ed è un’aulica sfumatura metaforica – quelle persone a cui piace essere omaggiate, di doni verbali e di doni materiali. C’è anche il caso, non raro, di un ricuttaru tuttu ricuttaru, un preparatore di ricotta a cui piace ricevere pure i regali, anche in ricotta.
Constatazione conclusiva. Considerato che a tutto il genere umano piace ricevere regali, soprattutto a Natale e sotto l’albero, ergo siamo tutti ricuttari.
Sereno Natale, con o senza ricotta.

Raimondo Moncada

mercoledì 21 dicembre 2016

Una cosa divertente che non farò mai più - Recensione

Se mai doveste avere intenzione di leggere Wallace in pubblico, accertatevi almeno che non ci siano più di cinque o sei fan degli Stati Uniti d’America all’interno della stanza dove, appunto, state leggendo. Le tre reazioni più comuni alla descrizione fosteriana degli ambienti e dei contesti contemporanei americani potrebbero essere così suddivise: a) aumento, generalmente brusco, della temperatura corporea; b) smorfie letteralmente extraterrestri che condannano apertamente il disgusto per l’isteria di massa nella società americana; c) caos, patriottismo, morte. Una cosa divertente che non farò mai più comincia con una data: 18 Marzo. Il primo elemento degno di presentazione è, com’è ovvio, la volontà dell’autore rispetto al dato reale, inconfutabile, magnetizzato della crociera 7NC, sulla quale ha svolto un reportage in qualità di pseudogiornalista nautico. Il patto con il lettore è pieno di ostacoli e le immagini così chiare da dimenticare la propria, ordinaria identità. Capitan Video, Dermatitis, la cabina 1009 dove lo scrittore soggiornerà per sette giorni di fila donano la capacità di rielaborare i percorsi del divertimento organizzato con una lucidità mentale folle in grado di mettere in discussione i canoni dell’ozio e del servilismo moderno. L’odio è capovolto, è una parentesi che non tocchi mai veramente; il tocco, in questo resoconto, è destinato al fastidioso panorama borghese di cinquecento americani benestanti che si sparpagliano, in file ordinate, lungo due o tre versanti in attesa di salpare verso un’illusione corale e spasmodica costruita su decine di muri di ottone, piscine olimpioniche, bibite d’occasione con prezzi esorbitanti e tornei di tiro a piattello con ex militari in vacanza. E’ un ritmo che grugnisce. Wallace ha indetto una riunione straordinaria sull’infelicità terrestre e si è buttato a capofitto sulla scrivania. Diventa quasi impossibile assorbire dal testo una sensazione unitaria che riesca tirar fuori un verdetto lucido e privo di intoppi dialogici. Non c’è posto per pensieri straordinari, non una rivoluzione. La ricaduta dei geni, la deficienza del globo, la macchia nell’agglomerato umano.

“[…]Ora sono le 11.32, e l’imbarco comincia alle 14 in punto e neanche un secondo prima; l’altoparlante dichiara gentilmente ma con fermezza la serietà della Celebrity per quanto riguarda queste cose. La voce di donna lascia immaginare che dietro ci sia una top model inglese. Ognuno tiene ben stretta la sua tessera numerata neanche fossero i documenti d’identità al Checkpoint Charley. In quest’ansiosa attesa di massa c’è un clima da Ellis Island/pre-Auschwitz, ma è con disagio che faccio questa analogia. Tante delle persone che aspettano- nonostante la tenuta caraibica – mi sembrano ebree, e mi vergogno di sorprendermi a pensare di poter stabilire se uno è ebreo dall’aspetto. Credo di poter calcolare in due terzi le persone che sono sedute sulle sedie arancioni. Il pre-imbarco al molo 21 nell’hangar per dirigibili non è terribile come, diciamo, la Grand Central Station alle 17.15 del venerdì, ma si avvicina poco ai dettagli su vizi e servizi senza stress pubblicizzati nella brochure della Celebrity – brochure che non sono il solo a sfogliare e a rileggere con una certa malinconia. Molti, poi, leggono il Fort Lauderdale Sentinel o fissano gli altri con lo sguardo vuoto da metropolitana.”

Emanuele Scaduto 

martedì 13 dicembre 2016

SANTA LUCIA

Il 13 Dicembre è il giorno più corto che ci sia, lo dice un proverbio. Mancano solo diciotto giorni alla fine dell'anno. Santa Lucia è la protettrice degli occhi, vergine martire siracusana raffigurata con una lampada simbolo di luce e una palma, metafora del martirio, e un evidente messaggio a non guardare persone e cose nocive e consigli per votare ( no olio, no ex, si agli ex voto con gli organi d'argento mantenuti o ritrovati ).

venerdì 9 dicembre 2016

Cernia Tossica - Recensione di un libro letto

Una sfida farne la recensione. Recensione di un libro letto e reinterpretato, già so cosa direte - solo tu potevi trovarci certe sfumature. Io ci ho cercato il sesso, nel senso che mi sono subito interrogata se il libro fosse più facilmente indirizzabile a un pubblico femminile o se si trattasse di un libro adatto ai masculi; certo parla di finanza, di economia, di problematiche sociali forti, di pesca subacquea - un libro dai forti interrogativi tipo sott'acqua ci sta meglio un uomo? Gli affari finanziari solo per masculi, le femmine si occupano di borse e bilanci, che i conti è dimostrato che li sa fare meglio una donna dal pescivendolo. Cernia Tossica è "un libro ermafrodita", così lo voglio definire, il libro è suo, di Giorgio D'Amato, ma la recensione è mia! Al maschile o al femminile è libro che va a letto subito, non ci sono santi che sudano, (lo taglierebbe) ma pesci morti, tracce di autobiografia sospetta, carne trita e mozzarella a fili lunghi lunghi dentro al riso, che sua madre è brava a fare le arancine; ci stanno i cani e rampicanti intorno alla ringhiera che forse è la stessa e "cernie offese" a pendolare alle sbarre del cancello non se ne vedono più da anni - ora ci appendono il sacchetto con il pane (io l'ho visto). Che bel tronco di uomo questo Germano, lo immagino così muscoloso, bello, sicuro, alto, furbo, protagonista ambizioso, narciso, quanti gradevoli  aggettivi che lo scrittore in questione me li editerebbe tutti; come resistere a occhi azzurri dalle sfumature cangianti, al protagonista maschile forzuto e padrone della scena! siamo già innamorate di lui e lo scrittore ce lo fa vedere correre nudo tra i prati - Rosà ti strappo le mutande! In tante potremmo essere Rosanna, Candy Candy nell'intimo che una "vasata  terensiaca" a Germano gliela daremmo, pagine che ci fanno sognare, rimandi pittoreschi con "riferimenti heidiani"...solo piena natura su sfondo di monti e bestiame, e Germano stuzzica il masculo, il Peter che si nasconde dentro di voi; e potete tirare fuori la lingua con Cernia Tossica in mano, un libro anche al femminile che tutte noi donne amiamo il tipo bad boy, e Germano lo è: tipo tosto, duro al punto giusto e cattivo perso, e quindi nella fantasia femminile da cambiare, da riportare sulla giusta strada, anche se qui di conversione l'autore non ne parla, (al liceo lui preferiva leggere Kundera piuttosto che Manzoni) non parla delle suore crudeli a cui avrebbe voluto  pisciare in faccia alle elementari e della sua sindrome da filo interdentale, ma solo di pesci ammazzati, di gabbie dorate, di macchine di lusso, notti da sballo in un paese vuoto, ruote di motorino bucate, corse pazze, tuffi dall'alto del muretto, tazzine di caffè da lavare, scavazzo di limoni ( no forse scritto nel romanzo precedente o nel prossimo ) nel mentre raggiunge l'apice dell'ermafroditismo: lei legge, intellettuale diversa non cessa, in realtà dei pesci ne fa acquerelli, lui scrive, è uno che conta e le derivate le cerca tra le parole o traccia su un foglio da disegno. " Lo so, è terribile. " Provate a trovarci altro.

Nina Tarantino

mercoledì 7 dicembre 2016

Cernia Tossica - Recensione di Adelaide J. Pellitteri

Leggere il libro di un autore che si conosce personalmente, comporta le sue difficoltà.
Fin dalla prima pagina senti la sua voce, riconosci le parole che usa più spesso e fai fatica ad entrare nella storia. Soprattutto se il personaggio narrante è una donna e l'autore un uomo.
Allora, per questa recensione, comincio proprio da lui, l'autore. 
Il nome, Giorgio D'Amato, è uno sparo di luce. 
È riportato in bianco sulla copertina a campo nero. Spicca più del titolo stesso, Cernia tossica, che comunque non potrebbe passare inosservato. 
Il libro prenderebbe subito il lettore, ma io ho ancora la voce di Giorgio alle orecchie, mi servono 50 pagine prima di "liberarmi" di lui. 
Però - perché c'è un però - a quel punto scopro che è stato merito suo se alla fine è sparito dalla storia. Il personaggio, anzi i personaggi, hanno preso vita propria, faccia, personalità.
La storia incalza ed è una bella storia. 
Si potrebbe parlare di diavolo ed acqua santa, per dire che è l'incontro sfortunato tra chi ha intelligente cultura e aspirazioni letterarie e chi, invece, altro non è che un becero materialista: un arruffone della peggiore specie. 
Rosanna detta Rosà, involontariamente diventa facile preda dell'uomo illetterato e avido; farà di lei un suo strumento. 
La storia si evolve spiegando molti dei meccanismi che da decenni affliggono la nostra economia, mortificano la nostra cultura e demoliscono il nostro futuro. 
Siamo al dunque come epoca e come sentimenti.
Giorgio D'Amato, secondo me, nel sottotesto ci dice anche come gli zoticoni abbiamo un bisogno estremo dei "colti" che senza la loro collaborazione non andrebbero da nessuna parte, non saprebbero neppure "presentarsi". 
Ed ecco che allora anche una storia d'amore fatta di attrazione animalesca, trasforma i due personaggi in braccio e mente, ma qui la sorpresa, la mente e l'avido, il braccio la letterata. E i loro sentimenti (se pure diversi) viaggiano in "tandem" diventano veicolo per loschi traffici e grandi affari.
Un’escalation di truffe e raggiri, partendo dal gradino più basso, il riciclaggio di denaro sporco, poi i diplomi regalati, gli agganci con i Ministri e via via in un crescendo semplice e pedissequo, quanto perverso e, soprattutto, accompagnato da belle lettere di presentazione.  
Un spaccato d'Italia, ancora sotto in nostri occhi.
Un libro che stupisce per i suoi giochi di "potere" visti sotto una luce che non ti aspetti.

Adelaide J. Pellitteri

lunedì 5 dicembre 2016

Saltatempo, di Stefano Benni, a cura di Adelaide J. Pellitteri

Ci sono libri che ti fanno venire la voglia di imparare a scrivere, poi ci sono altri che ti dicono di smettere, perché - se pure ritenevi di avere un po’ di stoffa (magari solo per un buon trafiletto, scritto sotto dettatura di qualche spirito vagante) - prendi coscienza: la tua stoffa (cioè la mia) è veramente poca. Ok, dopo un libro così mi sento felicemente a pezzi.
Ho ascoltato il consiglio di un giovane universitario, l'ho sempre detto: ascoltare i giovani fa bene.
Così, ho appena finito di leggere il libro ed è stato un viaggio bellissimo.
Per recensire un autore come Benni ci vorrebbe almeno un millesimo della sua fantasia, ma questa è spropositata, quindi, io posso solo provare a farvi venire appena-appena un po' di curiosità (ci provo).
Se avete voglia di spaziare tra mille generi insieme beh, non avete che prendere Saltatempo e tuffarvi nel primo fiume che vi viene tra le dita. Gnomi, dee e gnocche stratosferiche sono alcuni degli ingredienti, poi c'è la politica, l'amicizia... aspettate sto facendo un po' di confusione.
Partiamo da principio (sempre che un "principio" ci sia, nel senso di uno solo). Ok: un ragazzino che abita in un minuscolo paese dominato da un bosco, scarpagna verso valle per andare a scuola.
Sono - e saranno - gli stessi passi che muoverà verso la vita. Scarpagnando sempre, saltellando tra fossi e collinette, una strada sempre accidentata, a volte sorprendente a volte pericolosa.
Attraverserà il tempo con il suo orobilogio, saltandolo e ritrovandolo, sperimentando il sesso, l'amore, l'affiatamento, la giustizia, la rabbia, la vendetta.
Vedrà la sua valle e tutti i dintorni messi a soqquadro dall'allettante futuro, cioè la corruzione, l'interesse personale, l'ottusità.
Attraverserà la storia del suo "paese" quale è stato anche il nostro, l'Italia (in seno all'Europa).
Le stragi di Piazza Fontana, le scuole occupate, la libertà sessuale, le molotov, le vincite al totocalcio, le frane, gli arresti, la droga.
Ma se pensate che per argomenti del genere occorra un linguaggio adatto - cioè serio e profondo - vuol dire che non vi ho ancora spiegato come l'autore scriva e descriva ( e infatti come faccio a spiegare la scrittura di Stefano Benni?). Avete presente la ricerca ossessiva degli aggettivi corretti? Ecco, lui fa l'esatto contrario, solo che l'aggettivo - che non ci azzecca nulla - lo azzecca perfettamente. Rendo l'idea?
Nel corollario ci sono i lucci con i piercing e i musi segnati dai pescatori. Poi gli elfi e la strega Berega, il Dio allegro, lo gnomo Boleto...
Il libro è un fantasy umoristico esilarante, ma a tratti anche un thriller, un giallo, un libro di memorie, o sulle questioni pubbliche e anche private, molto private, e poi c'è la morte, quella giusta e quella ingiusta come è la morte da sempre, ma poi c'è anche la vita, quella nuova che cammina sulle scarpe di ginnastica con un viluppo di lacci, color rosso fuoco.

mercoledì 30 novembre 2016

Pasolini. Ragazzo a vita - di Renzo Paris

Ho letto tutto d'un fiato questo libro. Perchè ti prende fin dalla prima pagina. Anzi, ti accoglie tiepido per darti il fuoco man mano. Ho assistito alla presentazione del libro con l'autore, ne ha fatto una visione edulcorata per rispetto verso l'artista e la memoria. Di fatto, parlare di Pasolini non è facile. Ma via via leggendolo ne offre una visione molto aderente. Ripeto, parlare di Pasolini non è facile. Non lo era allora quando visse, in una Italia violenta, scossa dalle stragi, lotte, sconfitte e delusioni, quando i morti ammazzati erano sulle strade, nei cortei, tra le fila rosse e nere. Erano i tempi del Movimento Studentesco, delle lotte operaie ma Pasolini fa il distinguo da subito. Bolla il Movimento Studentesco nella sua “Il PCI ai giovani”, guarda altrove e lontano, ”vedendo” in questa Rivoluzione l'estremo cambiamento della borghesia nei confronti di se stessa, e il fine ultimo delle lotte operaie: il villino al mare. Il cambiamento operato da queste “Rivoluzioni” muterà alcune libertà, permettendo altre leggi di mercato, cambiamento definitivamente concluso nella globalizzazione. Il suo canto solitario, come quello del cigno prima di morire, e rimasto isolato, ha guardato al futuro, anticipandolo. Il suo atto d'accusa, il suo “io so” che dà vita al suo ultimo romanzo, Petrolio, il suo scavare nel fianco delle stragi, lo rendono scomodo e inquietante. Perchè  le stragi sono state guidate da un unico fautore: le “mafie”, come egli afferma.
Nel libro che parla chiaro, degli ambienti letterari di quella Roma dei salotti di Laura Betti, e dei suoi ospiti,  Moravia, Elsa Morante, Scola, Renzo Paris delinea il tessuto culturale e socio-politico del periodo di Pasolini. Rievoca la “sua" famiglia culturale, ove Emilio Gadda, anziano ormai, ha il ruolo del nonno e via via, la madre “fallica” Laura Betti, il fratello maggiore Pasolini, ecc.
Il filo del ricordo non è facile, spesso è doloroso ma lucido, documentale, ripercorre il doloroso momento della morte dello scrittore senza indulgere a spiegazioni a tutti i costi, rendendoci invece come lui l'ha vissuta. Il linguaggio è fantastico, frammentario a tratti, e colmo di frammenti. Affabulazione ad esempio, la tragedia in cui Pasolini ricrea l'analisi freudiana del rapporto Padre/figlio e di cui Paris ci restituisce frammenti di quella copia originale  dattiloscritta che lo scrittore gli affidò, forse perche Paris in friulano significa padre/figlio, dove l'esito finale è il sacrificio - quasi cristiano- del figlio. Pasolini figlio, dunque, la cui poetica ne esce vittoriosa, che incarna il suo spingersi ai limiti, negli ambienti ultimi a buttare il suo corpo nella lotta, pedagogo e padre/figlio di quei ragazzi di vita, amante e sacrificio, ragazzo a vita.
Pasolini amava chiedere: Se nel deserto incontri un leone affamato che deve nutrire i suoi cuccioli quale scelta farai?


Clotilde Alizzi

lunedì 3 ottobre 2016

Verso la fine del Mediterraneo

C'è un tempo per affannarsi, indotte  chiare esigenze a muovere  braccia, piedi e gambe, a urlare per comunicare l'urgenza, la necessità dei volti di chi prende la Via del Mare, dopo aver atteso, derubato di ogni avere, e della dignità. L'urgenza di sollevarli dall'acqua, ancora sopravvissuti, forse, ancora per un po', se non sei pronto. In quel gesto che non mediti si innesta tutta la misericordia. Non la pensi e l'incarni.
C'è un tempo poi in cui l'onda ferma scivola via, verso la fine del Mediterraneo che possiede di là rive ricche di sabbia e scogliere ferme al centro di azzurri cristallini, e il sapore salato delle lacrime percorre la rotta  che origina da quelle rive. Non hanno  colori, si sporcano le acque dell'inchiostro della piovra nera che inghiotte vite. Allarga i tentacoli nelle notti e arriva. Ha il volto dei fuochi che bruciano nelle stive, liquefà la pelle, soffoca polmoni, schiaccia  ossa,  orbite, gole. Sono i cimiteri del mare le stive pigiate di chi non arriverà mai. I cimiteri da cui scappano, hanno camminato il deserto, i loro piedi di polvere, imbiancati lungo la strada, hanno lasciato la terra bianca o rossa, soffocato e succhiato il loro sangue, la stessa lo assorbe avida.  Non finirà mai, mai.

Lo strazio di quegli occhi non finirà mai. Intanto si innalzano nuovi alti muri.

Clotilde Alizzi

giovedì 29 settembre 2016

Vanità Soldi Fango, di Alessio Castiglione - recensione di Adelaide J.Pellitteri

Per me che amo i mallopponi (del genere “Un cappello pieno di ciliegie” di Oriana Fallaci, 859 pagine) trovarmi in mano il libro di Alessio Castiglione mi lascia perplessa. È un romanzo breve, lo sapevo, ma guardo il dorso e non arriva nemmeno a un centimetro (a casa ne avrò la conferma, poco più di mezzo centimetro)! La curiosità vince. Conosco Alessio per via della mia passione letteraria, ho partecipato ad un paio di incontri di scrittura en plein air. Esperienza fantastica (ma questo è un altro discorso).
Proprio in quelle occasioni ho avuto modo di ascoltare i suoi racconti, scritti in meno di un'ora, con uno spunto dettato all'ultimo momento. Alessio mi conquista subito con una sensibilità fuori dal comune. I suoi racconti ti lasciano sempre qualcosa addosso, come una coperta, una sensazione, una speranza; qualcosa che gratifica l'ascolto, puntualmente. 
Leggo il suo libro Vanità soldi fango in poco più di un paio d'ore, e non riesco a credere che un romanzo tanto breve non abbia bisogno nemmeno di una sola pagina in più.
È bellissimo per l'orrore che descrive, in così poco inchiostro c'è tutto un mondo, una didascalia di sentimenti infinita.
Nonostante il "fango" percepisci il distacco del personaggio principale, e la morbosità descritta - noti - non è quella dell'autore, ma dei loschi individui che si muovono all'interno delle pagine. Un pregio unico, che hanno solo gli scrittori (quelli veri, intendo).
Forse questo romanzo farà parte della nuova letteratura, quella breve che al momento ci fa amare i racconti, i testi brevi che prima si snobbavano. 
Un grosso in bocca al lupo ad Alessio Castiglione, e grazie per averci regalato un testo come questo.

Adelaide J.Pellitteri


sabato 24 settembre 2016

A futura memoria

Leggo che la città in cui abito ormai da diversi anni, è definita in un post: masseria; questa parola per associazione di idee mi fa pensare alla masseria delle allodole, libro scritto qualche anno fa da una discendente del popolo armeno con l’intento di ricordare al mondo ciò che contro quel popolo si è perpetrato. Memoria.
 Allodole invece mi fa pensare agli specchietti per le allodole, ecco cosa possono essere alcuni post. Si utilizzano parole che ne ricordano altre, se ne usano alcune in maniera impropria. Scempio per esempio. scémpio2 s. m. [lat. exĕmplum, nel senso partic. di punizione crudele che serva di esempio]. – 1. Atto di violenza crudele e raccapricciante, strazio. Caspita, mi dico, hanno ricominciato con gli strangolamenti all’Icre, e qualcuno adesso se ne è accorto? Alt, no, non scempio, conferimento di materiali. 
Conferimento di materiali in un luogo che qualcuno vorrebbe innalzare a monumento della memoria, l’uso del termine campo di sterminio (non userò per la seconda volta le parole di un pentito) confonde gli ingenui ed agevola i marci. Quando muore un uomo, che in vita è stato assassino, malavitoso, mafioso, ucciso da uno come lui, (facenti parte di un sistema che arricchisce pochi a detrimento di uomini e risorse della comunità) se sono credente penso: pietà all’anima sua, viceversa penserò al concime organico, alla terra - polvere siete!
L’Icre ex magazzino del ferro, è un maiasienu, luogo inospitale, esteticamente non bello, inadeguato ad ospitare scolaresche, laboratori o eventi culturali che possano durare più di una giornata - non è nemmeno dotato di servizi igienici.
Alcuni lo hanno anche definito un luogo di memoria! Nella storia quali sono i luoghi di memoria? Lo storico Pierre Nora dice che “luogo della memoria è un’unità significativa, d’ordine materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavorio del tempo ha reso un elemento simbolico di una qualche comunità…” L’Icre è o potrebbe diventare ciò? La memoria di quello che non vorremmo essere, si, potrebbe. Dunque non un circolo sacro dentro cui innalzare altari, dove tanti vorrebbero officiare la propria messa personale, personali ostie da imboccare ad una comunità colpevole sicuramente di omissione e di omertà, e così recuperarla alla santità. Noi pensiamo che una pena sia necessaria, che l’ostia sacra da officiare sia da riservare nelle chiese alla comunità dei pentiti e redenti.
Tenuto conto che i luoghi di commemorazione dovrebbero essere quelli in cui ad essere trucidati (e questa è una parola appropriata) siano stati i servitori dello Stato e i cittadini onesti (scusate la banalità della parola onesti) – a nostro parere l’Icre non potrebbe diventare ciò. Tra quelle mura sono stati uccisi uomini di cui la comunità avrebbe fatto volentieri a meno e che non rappresentano lo Stato civile. Cosa fare allora di questo maiasienu?
Scoppia lo scandalo,  l’Icre dal silenzio si risveglia, dopo essere stata tomba e vergogna, diventa luogo di conferimento di materiali, riprende la funzione di magazzino; materiali, non RIFIUTI, che opportunamente raccolti possono avere una seconda vita: RIUTILIZZO, RICICLO e RECUPERO.
Ecco che la destinazione dei beni confiscati ai mafiosi trova una valenza sociale!
“La gestione dei rifiuti va riferita ai principi di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti.
Il concetto di responsabilità condivisa espresso dalla normativa italiana prevede che tutti, imprese, pubblica amministrazione, consumatori concorrano al raggiungimento degli obiettivi generali di raccolta e riciclo.
La certezza del raggiungimento di questi obiettivi si può avere solo se al loro ottenimento parteciperanno tutti, ognuno nel proprio ruolo.”
E questo non sarebbe RISCATTO!?
Cultura è anche altro rispetto a ciò che siamo abituati a considerare, non soltanto libri o spettacoli. La gestione dei residui post consumo presuppone la conoscenza e l’informazione mirata, sensibilizzare il cittadino alla cultura che il rifiuto non esiste; è chiaro che ci si scontra con lo scetticismo e l’abitudine incancrenita di coloro che RIFIUTANO il cambiamento. Esistono materie che devono essere reinserite nel ciclo della vita (economia circolare).
Accidenti quante cose si possono imparare parlando ri munnizza! 
Non dimentichiamo che quando si cerca di scardinare il “sistema rifiuti” consolidato, si spezzano equilibri che ad alcuni, per decenni, hanno garantito la salvaguardia di grandi interessi economici; ci si scontra contro le logiche economico-politiche di un sistema che fino ad oggi si è basato sul conferimento nelle discariche, spesso anche in violazione alle principali norme comunitarie, e che non può funzionare perché toglie risorse e lascia inquinamento alle generazioni future, ai nostri figli ed ai nostri nipoti.
E così, sia.
Adele Musso per AAS

mercoledì 21 settembre 2016

NewBookClub on the road: Piazza Monte S. Rosalia



Ultimo incontro estivo, in Piazza Monte Santa Rosalia, ecco! Location simbiotica e accogliente, tra odore di legno e libri ( circa 45.000 ) ci sta la libreria di strada del Signor Piero Tramonte e ci sta il NewBookClub; ultima tappa di una serie di incontri itineranti che ci hanno fatto compagnia da Primavera a Estate, in diversi punti della città dalla Vucciria al Massimo alle Vergogne di Palermo.

lunedì 1 agosto 2016

La Frontiera

E’ stata replicata l’opera di Maurizio Padovano “La Frontiera” interpretata da un gruppo di studenti del Liceo Classico “ Francesco Scaduto” di Bagheria con l’eccellente regia di Rinaldo Clementi. Questa seconda volta è andata pure meglio della Prima che era stata rappresentata nella Cavea dell’Istituto il mese scorso. A mio giudizio l’opera ha reso di più, è andata ben oltre, la funzione didattica che molti gli hanno, probabilmente, attribuito (considerando la presenza del pubblico formato prevalentemente da insegnanti dell’Istituto e dai parenti dei ragazzi protagonisti).
Un ottimo prodotto questo lavoro, anche per l’impegno dei ragazzi stessi, bravi tutti, in particolare gli interpreti maggiori: Francesco Carollo e Francesca Padovano, rispettivamente per il personaggio del Giudice e della Donna indigena che lui accoglie e cura nella sua casa (che rappresenterà agli occhi di chi poi lo accuserà di tradimento, testimonianza della sua colpevolezza). La Frontiera è una riflessione articolata sugli eventi drammatici che si stanno accumulando sulla nostra contemporaneità, le guerre del Medio Oriente, con le sue tragiche conseguenze sulla popolazione di quei luoghi; conseguenze che producono fenomeni a catena che non si fermano sulle coste dell’Africa, come tanti vorrebbero. La catena degli eventi è trascinata non dalle notizie (che per la maggioranza dei casi ci lasciano indifferenti) di uomini privati della libertà, confinati in corridoi di terra, privati perfino di uno stato e di una cittadinanza, torturati e resi prigionieri, ma ci arrivano insieme agli uomini fuggiti, per fortuna e per paura, per speranza forse, imbarcati su relitti di barche, su legni e gommoni, che si disperdono e che si annegano e dei quali spesso ci giungono gli stracci, le scarpe - più resistenti dei loro corpi umani che necessitano del respiro per sopravvivere. Nell’opera, la colpa del Giudice consiste nel non voler riconoscere in questi uomini e in queste donne che si accalcano alla Frontiera dei nemici, ma solo persone in cerca di un luogo più sicuro in cui poter vivere. Emerge con forza nel testo l’inganno a cui noi contemporanei, partecipi della tragedia che si sta consumando nel mediterraneo siamo soggetti, costretti a guardare questi uomini e queste donne che lottano contro la morte e provano a raggiungere le nostre coste, se mai le raggiungeranno, come nemici, ora, perfino come terroristi. Un racconto convincente, quasi una profezia. Esso ci mostra in che modo il volto pacifico del nomade, in quel caso, si trasforma, (attraverso le parole pronunciate dal generale ), nel volto minaccioso del barbaro che ci insidia, che minaccia la nostra pace, la nostra cultura, il nostro paese; e come sia sbagliato innalzare noi stessi, i nostri corpi e le nostre menti, in forza a questa menzogna, come muro. Padovano si è fatto aiutare da Eschilo, per dirci questo. L’antico drammaturgo, ci dice il coro, ci annuncia che se perdere la memoria ha una sua ragione, pure nella memoria si cela la risposta alle nostre domande, lei ci viene in soccorso per smascherare l’insidia più grande che trasforma le vittime in colpevoli e i popoli inermi in eserciti agguerriti. Ho visto sfilare davanti a me una tesi insolita, da tempo evitata, la “questione palestinese” ormai sembra cosa superata, annullata da altre storie di ghetti e di massacri. E mi è sembrato di intravedere in questo, se non l'origine, almeno il fondo. Nessuno parla più di Palestina e dei palestinesi. L’onda si allarga e i colpevoli sono “loro” i migranti verso cui impareremo a costruire una nuova frontiera, un muro più poderoso di quello che serviva a fermare il comunismo russo. E questo mi serve per dire che su quella scena ho visto aggirarsi, fra gli studenti del Liceo, nientepopodimeno meno che Brecht! che ci ricorda che lo spettatore non deve immedesimarsi durante la rappresentazione. (ahimè, l'ho fatto!) Era presente ovunque nella narrazione infarcita di numerosi elementi parodistici che accompagnavano la sceneggiatura “estraniante” tipica del “teatro epico” che il drammaturgo tedesco riteneva essere necessaria per attivare il “distacco” critico. Bello spettacolo, insomma, per me, oltre che interessante. Mi ha ricordato una poesia che vorrei aggiungere a questo commento, una poesia che parla di migranti e che ho sentito evocare sulla scena, quando si fa menzione alle “scarpe” che galleggiano nel mediterraneo.




I Scarpi a mmari

A mmari ci sunnu pisci strani, su pisci ‘ca un ciatanu, ma parranu.
Arrivanu ri notti, umma umma, scappati di li peri, senza summa,
Su scarpi, parranu, vu rissi;
Cuntanu ri peri sanguinanti, ri siti, ri disertu, ri fami e di duluri,
Ri sonnu persu, e ri vuccuni amari, ri casi sdisulati, ri picciriddi rutti…..
Su scarpi strani, sti scarpi ammari.
Cuntanu stori can u’ vogghiu sintiri.
Arrivanu! Curriti! Rici a genti ri mari, e ‘nveci ri scappari accurrinu chi rriti.
Eppuru sunnu cosi ri scantari !
Rapunu vucchi comi piscicani.
Si mancianu l’aria frisca ra matina, u suli - su come ‘na fucina e abbrucianu lu cori.
Si li guardi ti penti ri essiri fra tanti - chiddi chi talianu ri luntanu,
E un portanu mancu un coppu manu
Talianu e ricunu: Cu su? Chi bonnu ri nuautri? Chi c’intramu?
A nostra paci nui nun la pristamu!
Allura i scarpi ammari s’arrabbianu, tagghianu li riti comu spati e

U sangu s’arririversa ‘nta li strati.

Rosa La Camera





martedì 26 luglio 2016

Il cunto delle minne, di Giuseppina Torregrossa

Il titolo e il pensiero mi va alle minne del nostro Gattopardo ca pulite cu un colpu di pezza e una spolverata di zucchero a velo le abbiamo rimesse sul vassoio che sembravano intatte.

E anche qui siamo in Sicilia, ci sono donne, madri, nonne che potrebbero essere le mie, le vostre. Agata la protagonista del libro potrebbe essere mia nonna, la frolla una delle sue ricette e le sue mani, le mie. I suoi seni prosperosi che tiene e cura, ( ci prega e se ne compiace ), un piacere che sale violento sotto la pelle, tra i muscoli e le ossa la carne di femmina, un marito che le accarezza senza sensualità potrebbero essere miei, vostri e senza pudore, un disinteresse segreto da mantenere potrei custodirlo con fiera fermezza di donna che sa che ciò che conta il cuore non sempre diventa destino. Lì tra le minne, il cuore pulsa e puoi ascoltarlo dal polso e in testa, che le nostre nonne lo pensavano che il desiderio del masculo è sacrosanto, padrone; quello femminile deve morire, soffocato da un cuscino sulla bocca o da un colpo di bastone. Generazioni e solidarietà femminile, rapporti consueti, sentimenti, amarezze della vita che ci strappa chi amiamo, tumori di vita addolciti da cassatelle a forme di minne in frolla, friabili e ripieni. "...devi affondarci le dita, quando senti che tutta la tua forza si trasforma in una carezza, allora la pasta è pronta...Ora la mettiamo a dormire dentro una mappina e intanto che prepariamo la crema..." Santa Agata protegge i seni e a lei dedicati le paste, e i racconti della nonna..."E allora , me la conti questa storia per la prima volta?", che Agatina ascolta e rievoca tra le pagine di questo romanzo, dove la donna vince orgogliosa di esserlo.


Nina Tarantino

domenica 24 luglio 2016

Un ricordo di Angelo Gargano

L’appuntamento era alle dieci di mattina, lui arrivò alle dieci e trenta perché sbagliò strada. Il suo ingresso fu da giornalista con microfono in mano e operatore a seguito. L’emozione iniziale si trasformò in una intesa amichevole, mi disse non pensare di parlare davanti ad una telecamera, guarda me e confidati. La cosa mi fece ridere, confidati! Di questi tempi nemmeno con i preti ci si confida gli risposi. Da professionista che era ha voluto sapere tutto del progetto, le domande che seguirono furono pertinenti e stimolanti per accendere la curiosità dello spettatore. Alla fine dell’intervista mi disse, verrò per constatare la veridicità di quello che hai detto. Venne il giorno dell’inaugurazione e mi fece i complimenti.
L’ho rivisto alla presentazione del libro di Francesco Tornatore, anche lui come Francesco faceva parte del fu partito comunista. Attento alla vita del suo paese raccontava i fatti e misfatti, non sempre obbiettivo, ma chi può dire di esserlo al 100%! Sicuramente con lui si spegne un pezzo di storia di Bagheria.
Un abbraccio ad Aurora.

                                                                                         
Caterina Guttuso

mercoledì 20 luglio 2016

Apertura a Strappo da centodieci e lode



Dalle piazze all’università per una letteratura universale che si trova a suo agio in ogni contesto, dal popolare all’accademico. Giorno 18 luglio 2016 presso l’ambiente multiculturale del Centro Linguistico di Ateneo dell’Università di Palermo è stata discussa la tesi dal titolo “La traduzione come riscrittura: ballate medievali e rielaborazioni contemporanee”. Le murder ballads, fonte di ispirazione per gli autori di Apertura a Strappo, sono le protagoniste. 

mercoledì 29 giugno 2016

92 sedie per Danilo Dolci

Vergine, la prima volta in cui ci sto dentro - in un cerchio così, tra tanti insegnanti. Sto nella mia Palermo, davanti allo splendido Teatro Massimo, grandiosa unità di storia e arte. Secondo le regole devo dire a tutti chi sono e che ci faccio qui (sembra facile rispondere). Dico loro in segreto che mi hanno invitata per fare un laboratorio di disegno, che sono Nina e Apertura a Strappo. Spiego chi siamo, due battute e quattro risate mi presentano.

Di Schiena, di Anna Burgio - Recensione

Non è la prima volta che qualcuno scrive della relazione tra Amedeo Modigliani e colei che, in alcuni casi, è stata definita “la moglie”, senza mai esserlo in realtà; essendo lei, Jeanne Hèbuterne, una ragazzina di diciassette anni e la loro una relazione breve, di quattro anni. Questa dev’essere stata la considerazione di chi ha scritto le tante biografie su Modigliani, biografie che generalmente trattano la Hèbuterne come un personaggio di contorno, meno importante di altre figure,  come, ad esempio, il mercante d’arte Zborowski e gli altri artisti che vivevano attorno a Modigliani e  come lui a Parigi : Guillaume Apollinaire, Maurice Utrillo, Moise Kisling, Chaim Soutine e tanti altri - i così detti “artisti maledetti”; se non fosse che Jeanne si sia uccisa lasciandosi cadere giù da una finestra della casa dei suoi genitori due giorni dopo la morte di lui, che avesse già partorito una bambina, che non viveva più con loro, e che fosse incinta di nove mesi quando si suicidò.
“Di Schiena” è il titolo del libro dove Anna Burgio prova a ricostruire questa relazione; stavolta, però il tentativo viene fatto usando un punto di vista diverso; non quello dei tanti biografi dell’artista, ma di una scrittrice che partendo dai brevi e frammentari riferimenti prova ad entrare nel personaggio, nell'esperienza di Jeanne, a parlarne entrando dentro la sua testa. Non posso dire che ci sia riuscita del tutto; mi sarei aspettata una scrittura diversa nei paragrafi in cui compie questa operazione di introspezione, avrei preferito che fosse più suggestiva e meno esplicita su argomenti che in realtà può solo immaginare. Per il resto, invece, penso che abbia fatto molto bene il suo lavoro di ricerca e di ricostruzione, tirando fuori un saggio molto particolare: un misto di analisi e di notizie; offrendoci di Jeanne una figura a tutto tondo, ma anche informazioni e ambienti.
La cosa che più mi è piaciuta di questo libro - la stessa che poi mi ha spinto a scrivere questa recensione - è una breve ma importante considerazione che fa l’autrice sul silenzio di Jeanne. Risulta un elemento significativo, questo silenzio, perché anomalo rispetto alla personalità di Jeanne, altrimenti volitiva, caparbia, colta e intraprendente, essa stessa un’artista, una pittrice. Il silenzio è lo stesso; è quello di tante donne, quelle che assumono un ruolo e lo portano avanti fino in fondo, senza recriminare.
Jeanne avrebbe - se avesse potuto - usato la sua arte per comunicare, quella che fu sicuramente una esperienza inenarrabile, per fissarla magari e nello stesso tempo per potersene liberare. Perché Jeanne non l’avesse fatto, resta una domanda sospesa che si lega al ricordo di una donna altrettanto caparbia e volitiva alla quale una volta ho sentito dire che “le cose peggiori sono quelle che non puoi raccontare, forse perché non le capisci, forse perché te ne vergogni” sono quelle le cose di cui si muore e di cui profondamente si vive, attorno a cui si costruiscono le esistenze, si formano caratteri e sensibilità, a volte perfino i lineamenti del viso, le fattezze dei corpi e la loro andatura, perché il silenzio agisce come uno scalpello.

Rosa La Camera

lunedì 27 giugno 2016

Occhi di cane azzurro - G.García Márquez, Recensione

Una ventata leggera di piombo, un universo stravolto da elementi letterari insoliti che un mondo fantastico salva; l'invenzione letteraria riesce a soffiare un vento liberatorio e ci porta oltre il testo, nel cosmo della fantasia. Non una parola di troppo nel testo, acerbo, pieno di elementi arcani. 
Undici racconti dove alla narrazione si mescolano simbologia e magia, realismo e mondo fiabesco, che supera tutto il resto, la fantasia come via d'uscita, valvola di sfiato, superamento dell'esistenza stessa dell'essere, elementi macabri, allegorie intrise di morte, sonno, sogni, sdoppiamenti, nevrosi e solitudine, che il Marquez porterà nei suoi Cent'anni di solitudine.
...Aveva dedicato la sua vita a cercarmi nella realtà, mediante quella frase identificatrice: Occhi di cane azzurro. E per la strada la diceva ad alta voce, il che era una maniera per dire all'unica persona che avrebbe potuto intenderla: - Io sono colei che arriva ogni notte nei tuoi sogni e ti dice: occhi di cane azzurro. In Eva sta dentro il suo gatto, una bellezza crollata duole come un tumore, la trasformazione e la difficoltà della rassegnazione di essere una bestia vinta che miagola e sente il ripugnante desiderio di mangiare un topo.
Non si può non pensare alla Pioggia nel Pineto mentre si legge il Monologo di Isabel che guarda piovere sulla città di Macondo, ...senza che ce ne accorgessimo, la pioggia stava penetrando troppo a fondo nei nostri sensi. Nei racconti trovano spazio allucinazioni, angoscia, nevrosi, follia, una morte dopo l'altra; alla fine il mondo nevrotico muore e vince quello magicamente fantastico - nel sogno di essere.
Nina Tarantino



lunedì 20 giugno 2016

Gatti e incendi

Oggi Monte Pellegrino è immobile. Il castello Utveggio è nudo come un cadavere oltraggiato.
Mi domando quanti cani e gatti morti avranno trovato i vigili del fuoco lungo i sentieri.
Sì. Cani e gatti.
Avevo sentito questa storia alcuni anni fa, in occasione di un devastante incendio dello Zingaro: si attacca uno straccio bagnato di benzina alla coda dell'animale, gli si da fuoco e quello scappa terrorizzato per la sterpaglia, creando un fronte di fuoco enorme.
Ora ho letto che non si tratta più di stracci. Gettano direttamente la benzina sul gatto, che è più veloce, e fa meno chiasso, e ci sta di più a morire.
Ora provate a immaginare. Il dolore, la puzza di bruciato, il pelo che si strina, la carne che arde, gli occhi che si accecano e tu, piccolo, che corri alla cieca fino a che non ti si brucia il cervello. Letteralmente.
Mi domando, e non è solo una domanda di pancia, questa, chi può fare una cosa del genere a cuor leggero. Davvero.
Bruciare un ettaro o dieci di bosco e farlo sacrificando una vita. Ce ne vuole di coraggio. O di crudeltà. No, bestialità no. Non offendo gli animali. Non le vittime di questi incendi: volpi, lepri, cinghiali morti soffocati, uccelli senza più nidi. Lucertole, serpi, scoiattoli. Tutti morti.
Ci vuole forza per tenere fermo un gatto o un cane mentre lo innaffi di benzina, torni a casa graffiato, magari puzzi di alcool o di benzina, hai dei segni sul corpo. I tuoi colleghi non lo notano? O lo vedono e stanno zitti, in pura logica mafiosa?
Tua moglie, i tuoi figli, tua madre non lo vede? Cosa fa, ti da una pacca sulla spalla e ti dice bravo, "Così imparano e danno a te il posto di lavoro?" E' questo che succede? Non ti schiaffeggiano come dovrebbero? Non provano vergogna ad averti come parente, uomo senza dignità?
Voi che sapete, voi colleghi, familiari. Che cosa ne pensate, cosa gli dite? Un po' lo immagino. Per voi la vita di un cane, o l'importanza di un bosco è niente rispetto allo stipendio promesso dal portaborse di turno. Manco dall'assessore: dal tirapiedi.
A voi interessano i picciuli. Siete come quella persona che costruì i palazzoni che devastarono la Conca d'oro, che un giorno disse a me, con un sorriso contento "Qua era tutto un giardino, tutto arance. E ora qua, guardi che palazzi. Ci ho dato lavoro a tante persone, io." Certo. Lavoro.
E cemento.
E un genero portato al carcere di Opera, ma questa è un'altra storia che racconterò, prima o poi.
Ora parliamo di questo. Del fatto che bisogna dirlo a voce forte, che gli incendi non scoppiano a caso, che dietro c'era la volontà di devastare, fare pressione sulla Regione, che a questi vermi non gliene frega niente di distruggere la propria terra. Che è come se stessero prendendo a schiaffi la madre.
Vorrei capire.
Il piromane, quello con una patologia ben determinata, è una figura rara. Il piromane mafioso, no. Quello aspetta la giornata giusta, perché lo scirocco che c'è qui in Sicilia lo trovi solo in Africa. E poi "adduma". Dà fuoco. Dà fuoco perché così si assicura il rimboschimento per cinque anni, in attesa di un altro incendio, da fuoco perché così al comune xxx possono estendere le zone edificabili, possono ampliare le concessioni, da fuoco perché gli hanno detto di fare così.E poi guardo Monte Pellegrino. Non è solo un discorso di estetica, ma di sentire, vivere, vedere. La legalità passa anche dalla bellezza.
Non è puro, sterile quanto poetico senso estetico.
Stavolta le case sono partite dalle zone vicine ai centri abitati. Sulla montagna, l'ho visto io il fuoco che ballava da un angolo all'altro. e subito ho pensato. Gatti. Cani. E più pregavo, più il fuoco scendeva.
Penso alle ville ai margini di Palermo, ai giardini di delizia. Ai villini liberty, le cui pietre e i mosaici sono finiti in fondo al mare davanti al foro Italico, penso alle ville divise tra eredi che hanno sventrato i soffitti affrescati e si sono venduti i pavimenti di maiolica.
Noi la bellezza non ce la meritiamo.

Stefania Auci


venerdì 17 giugno 2016

La notte dei petali bianchi, di Gianfranco Di Fiore - recensione

Se una marina di libri, quest’anno, doveva stupirmi c’è riuscita anche con un libro, e la cosa non è così ovvia. A noi di Apertura a Strappo è andata meglio di quanto si potesse sperare. La replica de Il Gattopardo raccontato dalle cameriere ci ha reso felici come bambini.

Intanto che aspetto di esibirmi cerco tra i vari stand un'emozione cartacea da portare a casa. Ma ho la testa alla mia prima interpretazione di Agatina, la cameriera che ha qualche notizia in più sul plebiscito e non riesco a concentrarmi sulle copertine dei libri; eppure portarne almeno uno a casa è indispensabile. Ho appena finito l’ultimo ed è come rimanere senza caffè nel barattolo, senza pasta nella dispensa: Non si può! 
Solo che scegliere tra qualche migliaio di libri mi sembra un’impresa teutonica. Rinuncio.
Un piccolo assembramento di amici davanti al nostro stand mi costringe a spostarmi un po’ e così getto l’occhio sopra un paio di copertine pubblicate dalla Laurana Editore, prendo un libro caso, poi un altro, leggo la frase riportata sul retro di un volumetto dal titolo La notte dei petali bianchi; descrive un paesaggio senza colori, un luogo senza identità. La stessa sensazione che da un po' di tempo cominciamo a provare, forse, un po' tutti. Giorno dopo giorno assistiamo allo sfumare dei nostri confini, ci sfiora la paura di andare dispersi. Decido di prenderlo. Il ragazzo cui pago l'acquisto mi offre la sua dedica, sorrido, mi fa piacere, solo che ancora non comprendo del tutto. Insomma non era facile in quella masnada di libri e di stand con un libro scelto a caso beccare l’autore, non vi pare? Avrei potuto chiedergli tantissime cose per poi stilare questa recensione, avrei potuto fare un’intervista vera e propria, ma io sono troppo eccitata per la mia esibizione e non mi impegno ad ascoltare e quindi a capire. Dopo essermi allontanata focalizzo: la dedica non la fa l’impiegato della casa editrice! Guardo mio marito che conferma la mia stupidata, torno indietro per recuperare, ma l’autore è già andato via. 
Dovrò accontentarmi solo del suo libro.
Leggo le prima cinquanta pagine la sera stessa. La nostra esibizione è andata alla grande e non ho una briciola di sonno. Sono felice come una bambina al suo primo gioco di società. 
Il libro mi agguanta subito e leggere le pagine, una dietro l’altra, mi mette sulla corda delle emozioni. Da tempo non leggevo un libro capace di trascinarmi non tanto dentro la storia, quanto dentro il personaggio principale, passo dall’altro lato della barricata ed è proprio una guerra silente quella che comincio a vivere. Di tanto in tanto, nei giorni a seguire, dovrò pure richiudere il libro incapace di proseguire. Mi servirà riprendere fiato, prendere le distanze dal mondo nauseante della pedofilia. Mi manda in crisi comprendere che sentirne parlare sia un conto, "viverlo" seppure attraverso un libro, sia un'altra. 
Non ci sono colori per chi subisce abusi, e Gianfranco Di Fiore racconta una storia senza strappare lacrime e pietismi, piuttosto mostrandoti lo squilibrio e l'effetto domino che renderà il bambino un'altra persona (se ancora persona).
Mentre scrivo non ho ancora finito di leggerlo e questo credo che sia indicativo, scrivo sull'onda emotiva suscitata dall'ennesima pagina. Non importa come finirà la storia, spero nel lieto fine, sì, voglio ancora sperare, ma so già che non è questo ciò che potrebbe cambiare le cose, il mondo andrà avanti ancora così, perché non c'è umanità, non c'è razza, non c'è cultura e nemmeno religione capace di restarne fuori né di combatterla abbastanza né punirla sufficientemente. 
Grazie Gianfranco, dovrei dirti che leggerti è stato un dolore inaspettato, ma credo che confrontarsi con questa realtà con un libro ben scritto, così come lo è il tuo, sia utile, significativo. Per me è valso molto di più che mille comizi e dissertazioni sul tema. 
Spero che la tua opera d'esordio finisca sotto riflettori importanti, veda la luce che merita, smuova quel senso di umanità che troppo spesso mettiamo a tacere solo perché così è il mondo, esattamente come ho scritto qualche riga più su. 

Adelaide Jole Pellitteri

lunedì 13 giugno 2016

Terrore e omofobia a Orlando. A che serve ora la solidarietà degli sciacalli necrofagi?

Torni a casa felice, vorresti condividere con gli amici le bellissime emozioni delle giornate di cultura a "Una Marina di libri", il piacere e l’amore per la cultura in ogni sua forma ed espressione, il bisogno di libertà. Ma basta un attimo soltanto affinché il sangue ti si raggeli nelle vene, affinché il respiro si sospenda, mentre un pugno ti colpisce allo stomaco e gli occhi si gonfiano di lacrime.
All’inizio non capisci quell’hashtag su Twitter: #Orlando. Pensi all’ennesima bega di politica interna, forse a un’uscita del sindaco di Palermo, a una dichiarazione del ministro della giustizia. Invece no. Cominci a leggere i giornali, guardi i reportage giornalistici e ti rendi conto di una cruda realtà: si è appena consumata una delle stragi più violente del nostro tempo.
Un 29enne americano di origini afgane entra armato fino ai denti in un locale frequentato prevalentemente da persone appartenenti alla comunità LGBT, spara all’impazzata, uccide 50 persone e ne ferisce altrettante. E i quotidiani riportano gli ultimi SMS di un giovane alla madre prima che il terrorista metta fine ai suoi sogni, alla sua esistenza. Vedi la gente che si accalca per chiedere informazioni circa i familiari e gli amici, senti le urla di disperazione, osservi attonito la gente inerme e ferita. Dopo qualche ora, l’Isis rivendica l’attentato, alla matrice omofobica si unisce anche quella del radicalismo religioso. 

Puntuali arrivano gli sciacalli del web, che fino a ieri inneggiavano alla rivoluzione contro la comunità LGBT, che invitavano a imbracciare i fucili per contrastare l’approvazione di leggi a favore delle persone omosessuali. Queste stesse persone esprimono adesso una solidarietà pelosa e interessata, falsa, ipocrita, volta a ottenere solo qualche click in più, perché per loro la dignità umana si misura in “mi piace” e retweet e magari pure qualche voto alle elezioni, giusto per raggiungere un misero 0,6%, facendo leva su paure create ad hoc.
Io ho paura dei terroristi islamici e dei terroristi in genere. Ma ho anche timore di coloro che fanno sciacallaggio su una tragedia simile. Farebbero stuprare le loro madri per un minuto di vanità social.
Perfino il Papa si scomoda, condanna l’attentato, l’uso delle armi, manifesta il proprio cordoglio, dimenticandosi però di citare l’identità LGBT di quelle persone, sottolineando, invece, la “normalità” della vita di quelle persone. E non puoi fare a meno di ricordare subito la battuta che Ozpetek fa dire al personaggio della nonna nel film “Mine vaganti”: «Normalità, che brutta parola!».
Se ignorate l'identità LGBT delle vittime della strage di Orlando, li uccidete due volte, li massacrate di nuovo, li sacrificate nuovamente sull’altare dell’omofobia più abietta.

Ma non è finita. Scorrendo i social trovi altre vili e meschine strumentalizzazioni di politici e di simpatizzanti di certi partiti, che proclamano una guerra santa all’Islam, ciarlano di “nazionalità musulmana” e di altri concetti aberranti che esistono solo nella loro mente insana, nelle realtà distorta che si sono costruiti nella loro testa. Le loro elucubrazioni mentali puzzano di necrofagia, sulla pelle di quei cadaveri che sono ancora caldi loro giocano una partita politica, pensano a ottenere qualche voto in più creando l’ennesimo nemico da combattere. 
La strage immane prima e gli sciacalli dopo non ti lasciano indifferente. Così le emozioni turbinano dentro. La commozione si unisce alla rabbia, all’umiliazione si accompagna la disperazione. Piangi, ti domandi perché. Ma, dopo lo smarrimento iniziale, bisogna calibrare le parole, misurare le emozioni.
Non dobbiamo permettere a qualsiasi forma di terrorismo di paralizzare la voglia di esistere, di affermare in ogni luogo e in ogni modo ciò che si è, il desiderio di essere liberi in mezzo a persone libere e felici di vivere come meglio credono. 
Non è vero che non ci sia una matrice omofobica di stampo religioso, non è stato un obbiettivo casuale il Pulse. Scientemente è stata colpita la comunità LGBT, chi lo nega è intellettualmente disonesto. 
Ma le parole, la solidarietà di certi personaggi infami, le frasi di circostanza non ci servono. Occorre agire, abbiamo bisogno di fatti. 
Adinolfi e i suoi sodali smettano di istigare all'odio omofobico e di genere, se vogliono fare un favore ai loro figli e alla società tutta, se davvero vogliono essere solidali alle persone LGBT, smettano questa abominevole e continua campagna di denigrazione, di omofobia. I crimini d’odio sono una delle violenze più aberranti, dovrebbero capirlo una volta per tutte. 
Come ha ricordato lo storico attivista LGBT Vanni Piccolo ieri a Roma, nel presidio per commemorare i morti della strage di Orlando, questa è una questione sociale che riguarda tutte le persone a prescindere, senza distinzioni di genere, orientamento sessuale, religione, etnia, cultura, etc. In Italia forse non c’è la cultura delle armi facili, ma i terroristi che armano i violenti omofobi li abbiamo anche qui. Professano forse una religione diversa, ma sono ugualmente pericolosi.
Al terrorismo e all'‪‬‬omofobia non possiamo rispondere con l'odio.
Non dobbiamo.

Tutta la comunità LGBT è ferita, ma restiamo umani!
A chi vuole terrorizzarci, a chi pretende di annullare i diritti umani, a chi ci vorrebbe normalizzati o peggio sottomessi rispondiamo uniti, lottando affinché tutti siano liberi di essere ciò che si sentono e/o vogliono essere. 
Per questo occorre partecipare alle manifestazioni specialmente in questo mese dedicato alle ricorrenze del Pride, perché laddove viene umiliata la dignità di una persona si vilipende l’umanità intera.
Le lacrime di oggi non devono appannare i nostri occhi, perché bisogna vedere chiaro per lottare e guardare al futuro di eguaglianza e libertà per tutti.

Salvatore Castrianni (@idrossido)