mercoledì 21 dicembre 2016

Una cosa divertente che non farò mai più - Recensione

Se mai doveste avere intenzione di leggere Wallace in pubblico, accertatevi almeno che non ci siano più di cinque o sei fan degli Stati Uniti d’America all’interno della stanza dove, appunto, state leggendo. Le tre reazioni più comuni alla descrizione fosteriana degli ambienti e dei contesti contemporanei americani potrebbero essere così suddivise: a) aumento, generalmente brusco, della temperatura corporea; b) smorfie letteralmente extraterrestri che condannano apertamente il disgusto per l’isteria di massa nella società americana; c) caos, patriottismo, morte. Una cosa divertente che non farò mai più comincia con una data: 18 Marzo. Il primo elemento degno di presentazione è, com’è ovvio, la volontà dell’autore rispetto al dato reale, inconfutabile, magnetizzato della crociera 7NC, sulla quale ha svolto un reportage in qualità di pseudogiornalista nautico. Il patto con il lettore è pieno di ostacoli e le immagini così chiare da dimenticare la propria, ordinaria identità. Capitan Video, Dermatitis, la cabina 1009 dove lo scrittore soggiornerà per sette giorni di fila donano la capacità di rielaborare i percorsi del divertimento organizzato con una lucidità mentale folle in grado di mettere in discussione i canoni dell’ozio e del servilismo moderno. L’odio è capovolto, è una parentesi che non tocchi mai veramente; il tocco, in questo resoconto, è destinato al fastidioso panorama borghese di cinquecento americani benestanti che si sparpagliano, in file ordinate, lungo due o tre versanti in attesa di salpare verso un’illusione corale e spasmodica costruita su decine di muri di ottone, piscine olimpioniche, bibite d’occasione con prezzi esorbitanti e tornei di tiro a piattello con ex militari in vacanza. E’ un ritmo che grugnisce. Wallace ha indetto una riunione straordinaria sull’infelicità terrestre e si è buttato a capofitto sulla scrivania. Diventa quasi impossibile assorbire dal testo una sensazione unitaria che riesca tirar fuori un verdetto lucido e privo di intoppi dialogici. Non c’è posto per pensieri straordinari, non una rivoluzione. La ricaduta dei geni, la deficienza del globo, la macchia nell’agglomerato umano.

“[…]Ora sono le 11.32, e l’imbarco comincia alle 14 in punto e neanche un secondo prima; l’altoparlante dichiara gentilmente ma con fermezza la serietà della Celebrity per quanto riguarda queste cose. La voce di donna lascia immaginare che dietro ci sia una top model inglese. Ognuno tiene ben stretta la sua tessera numerata neanche fossero i documenti d’identità al Checkpoint Charley. In quest’ansiosa attesa di massa c’è un clima da Ellis Island/pre-Auschwitz, ma è con disagio che faccio questa analogia. Tante delle persone che aspettano- nonostante la tenuta caraibica – mi sembrano ebree, e mi vergogno di sorprendermi a pensare di poter stabilire se uno è ebreo dall’aspetto. Credo di poter calcolare in due terzi le persone che sono sedute sulle sedie arancioni. Il pre-imbarco al molo 21 nell’hangar per dirigibili non è terribile come, diciamo, la Grand Central Station alle 17.15 del venerdì, ma si avvicina poco ai dettagli su vizi e servizi senza stress pubblicizzati nella brochure della Celebrity – brochure che non sono il solo a sfogliare e a rileggere con una certa malinconia. Molti, poi, leggono il Fort Lauderdale Sentinel o fissano gli altri con lo sguardo vuoto da metropolitana.”

Emanuele Scaduto