mercoledì 29 giugno 2016

Di Schiena, di Anna Burgio - Recensione

Non è la prima volta che qualcuno scrive della relazione tra Amedeo Modigliani e colei che, in alcuni casi, è stata definita “la moglie”, senza mai esserlo in realtà; essendo lei, Jeanne Hèbuterne, una ragazzina di diciassette anni e la loro una relazione breve, di quattro anni. Questa dev’essere stata la considerazione di chi ha scritto le tante biografie su Modigliani, biografie che generalmente trattano la Hèbuterne come un personaggio di contorno, meno importante di altre figure,  come, ad esempio, il mercante d’arte Zborowski e gli altri artisti che vivevano attorno a Modigliani e  come lui a Parigi : Guillaume Apollinaire, Maurice Utrillo, Moise Kisling, Chaim Soutine e tanti altri - i così detti “artisti maledetti”; se non fosse che Jeanne si sia uccisa lasciandosi cadere giù da una finestra della casa dei suoi genitori due giorni dopo la morte di lui, che avesse già partorito una bambina, che non viveva più con loro, e che fosse incinta di nove mesi quando si suicidò.
“Di Schiena” è il titolo del libro dove Anna Burgio prova a ricostruire questa relazione; stavolta, però il tentativo viene fatto usando un punto di vista diverso; non quello dei tanti biografi dell’artista, ma di una scrittrice che partendo dai brevi e frammentari riferimenti prova ad entrare nel personaggio, nell'esperienza di Jeanne, a parlarne entrando dentro la sua testa. Non posso dire che ci sia riuscita del tutto; mi sarei aspettata una scrittura diversa nei paragrafi in cui compie questa operazione di introspezione, avrei preferito che fosse più suggestiva e meno esplicita su argomenti che in realtà può solo immaginare. Per il resto, invece, penso che abbia fatto molto bene il suo lavoro di ricerca e di ricostruzione, tirando fuori un saggio molto particolare: un misto di analisi e di notizie; offrendoci di Jeanne una figura a tutto tondo, ma anche informazioni e ambienti.
La cosa che più mi è piaciuta di questo libro - la stessa che poi mi ha spinto a scrivere questa recensione - è una breve ma importante considerazione che fa l’autrice sul silenzio di Jeanne. Risulta un elemento significativo, questo silenzio, perché anomalo rispetto alla personalità di Jeanne, altrimenti volitiva, caparbia, colta e intraprendente, essa stessa un’artista, una pittrice. Il silenzio è lo stesso; è quello di tante donne, quelle che assumono un ruolo e lo portano avanti fino in fondo, senza recriminare.
Jeanne avrebbe - se avesse potuto - usato la sua arte per comunicare, quella che fu sicuramente una esperienza inenarrabile, per fissarla magari e nello stesso tempo per potersene liberare. Perché Jeanne non l’avesse fatto, resta una domanda sospesa che si lega al ricordo di una donna altrettanto caparbia e volitiva alla quale una volta ho sentito dire che “le cose peggiori sono quelle che non puoi raccontare, forse perché non le capisci, forse perché te ne vergogni” sono quelle le cose di cui si muore e di cui profondamente si vive, attorno a cui si costruiscono le esistenze, si formano caratteri e sensibilità, a volte perfino i lineamenti del viso, le fattezze dei corpi e la loro andatura, perché il silenzio agisce come uno scalpello.

Rosa La Camera