 Non nascondo tutta la mia diffidenza, verso i presunti casi letterari 
d’oltreoceano. Sfiducia che m’induce ad autoimpormi di limitare al 
massimo, quasi fosse una regola, sconfinamenti e trasferte. Ma devo dire
 che per lo Stoner di John Williams (Fazi, 2012), la sfiducia e il 
pregiudizio si sono da subito mutati in inattesa scoperta. A due anni 
dalla pubblicazione in Italia del suo libro senz’altro più famoso e 
celebrato, Augustus. Il romanzo dell’imperatore (Castelvecchi, 2010), a 
metà tra biografia romanzata e romanzo storico, Fazi fa centro 
traducendo il terzo romanzo di questo scrittore texano, uscito per la 
prima volta senza troppi clamori nel 1965, e divenuto più di recente un 
fenomeno grazie al recupero in patria con la ristampa fatta dalla New 
York Review Book nel 2003. Ma che cos’è a donare la straordinaria 
attualità di un classico al romanzo di Williams? La storia è tra le più 
convenzionali: il racconto d’una esistenza del tutto normale e incolore 
o, se vogliamo, del suo inesorabile fallimento. Di origini umili e 
contadine, Stoner trova l’emancipazione (?) nello studio della 
letteratura al college e nella scoperta possibilità di una carriera che 
lo porterà a svolgere con onestà e passione, per oltre quarant’anni, la 
professione accademica alla Columbia University.
Non nascondo tutta la mia diffidenza, verso i presunti casi letterari 
d’oltreoceano. Sfiducia che m’induce ad autoimpormi di limitare al 
massimo, quasi fosse una regola, sconfinamenti e trasferte. Ma devo dire
 che per lo Stoner di John Williams (Fazi, 2012), la sfiducia e il 
pregiudizio si sono da subito mutati in inattesa scoperta. A due anni 
dalla pubblicazione in Italia del suo libro senz’altro più famoso e 
celebrato, Augustus. Il romanzo dell’imperatore (Castelvecchi, 2010), a 
metà tra biografia romanzata e romanzo storico, Fazi fa centro 
traducendo il terzo romanzo di questo scrittore texano, uscito per la 
prima volta senza troppi clamori nel 1965, e divenuto più di recente un 
fenomeno grazie al recupero in patria con la ristampa fatta dalla New 
York Review Book nel 2003. Ma che cos’è a donare la straordinaria 
attualità di un classico al romanzo di Williams? La storia è tra le più 
convenzionali: il racconto d’una esistenza del tutto normale e incolore 
o, se vogliamo, del suo inesorabile fallimento. Di origini umili e 
contadine, Stoner trova l’emancipazione (?) nello studio della 
letteratura al college e nella scoperta possibilità di una carriera che 
lo porterà a svolgere con onestà e passione, per oltre quarant’anni, la 
professione accademica alla Columbia University.
Avvolta in una 
cappa di mediocre inettitudine, la sua vita è per lo più fatta di 
sconfitte: la perdita dell’amicizia, un matrimonio già fallito in 
partenza, una figlia adoratissima ma come lui destinata a perdersi, la 
tardiva scoperta d’una genuina fedeltà all’insegnamento e i dissapori 
connessi all’ambiente universitario, la rinuncia al solo vero amore 
della sua vita. Il massimo che gli è dato di cogliere sono l’insistito 
pressare di talune fondamentali domande (che a lui sembrano porsi 
innanzi con più impersonale forza) e l’affinarsi d’un nichilistico 
sentire che fa tutt’uno con il dissolversi dell’illusione di essere vero
 artefice del proprio destino. Ecco che la vicenda di Stoner, la sua 
cronica incapacità, inchioda per quel riuscire davvero esemplare, simile
 a un prisma capace di riflettere insoddisfazioni e frustrazioni della 
vita di everyman; a erodere quella certa dose d’imperdonabile disonestà 
verso se stessi. Infatti, come non scorgere nella monotona esistenza di 
Stoner una molecola della nostra inadeguatezza, un’oncia del nostro 
disagio di stare al mondo?
«Aveva concepito la saggezza e al 
termine di quei lunghi anni aveva trovato l’ignoranza» – basterebbe 
questo passaggio per convincersi di essere dinanzi alla cronaca minuta 
d’una totalizzante resa. Ma siamo sicuri si tratti solamente di 
un’inerme certificazione nichilista? Se così fosse ben altri autori si 
potrebbero chiamare in causa e meglio, certamente, gioverebbero allo 
scopo. Se non si è ancora detto tutto, che libro è, dunque, questo di 
Williams? Accanto all’esperienza del nulla, a brillare come non meno 
autentica rivelazione (distillata nelle pieghe del racconto) sta la 
scoperta dell’amore, da lui offerto a ogni svolta della vita, e la cui 
sostanza poteva sintetizzarsi, semplicemente, in un «Guarda! Sono 
vivo!». E non è un caso che l’unico scampolo di felicità concesso 
nell’esistenza di Will Stoner sia proprio la relazione extraconiugale 
con la giovane e talentuosa allieva Katherine Driscoll, non per il 
rifugio che la storia d’amore in sé poteva offrire alla sua conclamata 
condizione d’infelicità, ma per quel barlume di verità che gli permette,
 in concreto, di conoscere e sperimentare di e su se stesso. Un amore 
che scopre come «parte del divenire umano», «condizione inventata e 
modificata momento per momento», dal guizzo della volontà, 
dell’intelligenza, del cuore. Sarà l’accarezzare nuovamente, sull’orlo 
d’un inconsolabile rimpianto, questo speciale e compiuto sentimento 
d’amore, avvertito come piena consapevolezza dello stare al mondo, forma
 suprema di conoscenza, a fargli rifiutare l’idea di salvarsi.
Con
 una scrittura di rara eleganza e misura, di profonda penetrazione 
psicologica, capace di cesellare sequenze memorabili come quelle 
dedicate all’idillio amoroso, o ancora e più quelle finali 
sull’appressarsi della morte del protagonista, John Williams con Stoner 
ci consegna uno straordinario e singolare romanzo d’amore tout court.
Domenico Calcaterra 
(giù uscito su Nazione Indiana, nov 2012)
(giù uscito su Nazione Indiana, nov 2012)
 
