Davvero
gli adulti ricordano com’erano da bambini? La memoria cresce insieme a noi,
deforma, minimizza o amplifica le sensazioni che vivevamo a nove anni. Grazie a
Nicolas torniamo a vedere la realtà esattamente con gli occhi di quando eravamo
piccoli, il mondo si muove secondo una logica diversa, dinamiche apparentemente
semplici fanno scaturire ansie e batticuore o, al contrario, fatti morbosi
vengono riportati su un livello di comprensione autoreferenziale. Il senso di colpa
di un bambino, dovuto alla sua visione egocentrica del mondo – che ha motivo di
esistere in relazione solo e soltanto al suo sentire -. La vita edulcorata
dalla fantasia di un novenne normale, sebbene abbia tutte le ragioni di
sentirsi diverso dagli altri (coetanei e non), è sempre meno orribile di quanto
non sia secondo la verità adulta e Carrère riesce a condensare questi concetti
duri in un romanzo breve, a dimostrazione del fatto che la grandiosità di
un’opera non si misura in numeri sfarzosi e che troppe parole servono solo a
soddisfare bisogni effimeri. Niente didascalismi, dunque, rimandi secchi che
fanno l’occhiolino al lettore, dal quale si pretende sveltezza d’intelletto e
al quale si offre, in cambio, la libertà di chiudere il cerchio.
In seguito Nicolas cercò a lungo, ancora oggi, di
ricordarsi le ultime parole che gli aveva rivolto suo padre. L’aveva salutato
sulla porta dello chalet, gli aveva nuovamente raccomandato di fare attenzione,
ma Nicolas era così imbarazzato dalla sua presenza, così ansioso di vederlo
andar via che non era stato a sentire. Non gli perdonava di essere lì, di
attirare sguardi che immaginava ironici, e si era sottratto al suo bacio
chinando la testa. Nell’intimità familiare non l’avrebbe passata liscia, ma
sapeva che così, davanti a tutti, non avrebbe osato rimproverarlo.
Serena Giattina