giovedì 16 novembre 2017
Recensione del libro Un uomo di Oriana Fallaci
Storia di un amore e di una guerra.
L'amore: quello tra l'autrice e l'eroe solitario Alexandros Panagulis, Alekos.
La guerra: quella tra Panagulis e la dittatura dei colonnelli nella Grecia negli anni '70, contro Papadopulos.
Eppure il romanzo non è soltanto questo. Nel susseguirsi delle pagine troviamo anche la guerra dell'amore, la difficoltà di vivere in serenità un rapporto quando si ha un forte e lucido senso di giustizia che rende insopportabile i soprusi, le prevaricazioni e la necessità di lottare diventa insostituibile; e Panagulis si getta a capofitto nella lotta fino all'estremo sacrificio, ma solo per scoprire che anche nella democrazia esiste il sopruso, la prevaricazione, la dittatura.
Dittatura è il potere stesso.
E dittatura sarebbe stato anche l'amore, se lui non avesse incontrato Oriana "l'unica compagna possibile".
Ogni eroe è eroe da solo e quando due eroi si incontrano allora la solitudine non si annulla anzi si amplifica senza che però l'amore tra i due finisca.
La Fallaci ha il potere di unire due meravigliose caratteristiche della parola scritta: l'obiettività giornalistica e la fantasia letteraria. Un linguaggio semplice e ricco di metafore che non distraggono, anzi meglio esprimono, spiegano: azioni pensieri e sentimenti, la storia.
Leggere un suo libro (e questo in particolare) è come ascoltare una musica e riuscire a distinguere ogni singolo accordo, ogni nota emessa dal violino, dalla chitarra, dal tamburo, dall'oboe...
Ogni sfumatura è ed ha un sentimento proprio che include e prende il lettore coinvolgendolo emotivamente, senza risparmiargli assolutamente nulla.
Adelaide J. Pellitteri
lunedì 23 ottobre 2017
Una vita come tante di Hanya Yanagihara
Recensione
Da tempo non leggevo un romanzo tanto vasto, una storia di tragica e antica attualità, impossibile da dimenticare.
Abusi (danni difficili da riparare o forse impossibili) e amicizia (la fune che occorre per risalire dai propri baratri). Poi c'è l'amore (questo sconosciuto) che si accompagna a una bellezza infinita e storpiata; un corpo che troppo presto a perso la sua integrità e che alle cicatrici aggiunge cicatrici, unico modo che conosce per potere vivere con la speranza folle di riuscire a morire.
Tutte le gradazioni della rabbia, del dolore, dell'affetto, dove il sesso non è fonte di gioia tra due amanti. Un romanzo che ti stringe tra le sue giornate, difficili, piene di sentimento, ostinazione, volontà, odio, conquiste inimmaginabili e ricadute rovinose, giornate imprevedibili.
Non è una passeggiata - la lettura -, ma se cerchiamo libri che servano a qualcosa, che ci ricordino cosa è e di cosa è capace l'uomo, allora questo romanzo assolve egregiamente il compito.
Oserei dire che da tempo, in qualità di lettrice, non riuscivo a sentirmi così "viva".
Oltre mille pagine che potrebbero inibire il più volenteroso, ma prendere il volume tra le mani, concedersi l'incipit e da quello proseguire senza più fermarsi per me è stato un tutt'uno.
Adelaide J. Pellitteri
Da tempo non leggevo un romanzo tanto vasto, una storia di tragica e antica attualità, impossibile da dimenticare.
Abusi (danni difficili da riparare o forse impossibili) e amicizia (la fune che occorre per risalire dai propri baratri). Poi c'è l'amore (questo sconosciuto) che si accompagna a una bellezza infinita e storpiata; un corpo che troppo presto a perso la sua integrità e che alle cicatrici aggiunge cicatrici, unico modo che conosce per potere vivere con la speranza folle di riuscire a morire.
Tutte le gradazioni della rabbia, del dolore, dell'affetto, dove il sesso non è fonte di gioia tra due amanti. Un romanzo che ti stringe tra le sue giornate, difficili, piene di sentimento, ostinazione, volontà, odio, conquiste inimmaginabili e ricadute rovinose, giornate imprevedibili.
Non è una passeggiata - la lettura -, ma se cerchiamo libri che servano a qualcosa, che ci ricordino cosa è e di cosa è capace l'uomo, allora questo romanzo assolve egregiamente il compito.
Oserei dire che da tempo, in qualità di lettrice, non riuscivo a sentirmi così "viva".
Oltre mille pagine che potrebbero inibire il più volenteroso, ma prendere il volume tra le mani, concedersi l'incipit e da quello proseguire senza più fermarsi per me è stato un tutt'uno.
Adelaide J. Pellitteri
martedì 10 ottobre 2017
Recensione del libro Consigli pratici per uccidere mia suocera di Giulio Perrone
Ho incontrato Giulio Perrone all'evento Una Marina di libri di quest'anno, è arrivato a Palermo in doppia veste, presenta il suo nuovo libro pubblicato da Rizzoli ed ha il banchetto dove sono impilate le opere prodotte dalla sua casa editrice (la Giulio Perrone Editore, appunto).
Credo che imbattersi in un editore che scrive e pubblica con qualcuno diverso da se stesso sia già di per sé interessante. Penso al rapporto amore-odio tra le due anime (autore/editore) e decido di scoprirne il frutto. Scarico la copia del libro sul mio kindle quindi niente autografo ma risolvo con un selfie che carico sulla mia bacheca facebook.
Bene: detto, fatto.
Quando scrivo la recensione di un libro ho sempre paura di svelare troppo (come succede spesso nelle presentazioni ufficiali, che ci manca solo lo spoiler e poi ti hanno detto tutto. Alla fine ti chiedi: ma che mi compro a fare?)
Consigli pratici per uccidere mia suocera suggerisce l'idea di una divertente commedia eppure il titolo, che solitamente è una micro-sintesi di tutto il lavoro, in questo caso c'entra poco o comunque è assai relativo.
La storia è ambientata a Roma, la città eterna, così come eterni sembrano essere i dilemmi di un uomo indeciso, mentre due donne tengono ben salde le redini della propria vita nonché quella del personaggio in questione.
La vita un'occasione per cambiare se stessi sembra offrirla sempre, anche nelle situazioni più rocambolesche, pericolose o strampalate, sta solo a noi saperla cogliere, sfruttarla e infine decidere di intraprendere, oppure no, una nuova strada.
Il romanzo si legge in fretta tra un sorriso e una riflessione, tra un compatimento e una speranza - speranza proprio per il personaggio uomo, che quella è sempre l'ultima a morire - .
C'è molta verità in queste pagine e la verità è proprio ciò che si cerca in un libro di fantasia.
Adelaide J. Pellitteri
mercoledì 14 giugno 2017
Una Marina di libri 2017
Orto botanico/Una marina di libri = paradiso terreste per anime in pena: autori, editori e lettori.
Il luogo ideale per provare a conquistarsi, gli uni gli altri, a vicenda.
I lettori - gente come me, abitualmente insonne - annusa copertine, allunga lo sguardo bramoso ora su questo ora sull'altro banchetto, i libri vorticano loro davanti e la scelta si fa complicata. Sanno di poter spaziare tra generi, autori, volumi e volumetti. Bisogna decidersi, ma alla fine - non ci sono dubbi - ognuno riuscirà a fare la propria scorta di provviste; che almeno la notte non devi alzarti dal letto per gustarti un altro pezzo di vita.
Con voracità agguanteranno di tutto, opuscoli, brochure, bigliettini da visita e segnalibri.
Conoscersi, conoscere, farsi conoscere: l'eterna questione autore/editore, editore/lettore. Il primo deve conquistare il secondo, il secondo deve sedurre il terzo, così che il primo espugni il terzo. Sembra un'equazione matematica: lo è.
I mestieri cambiano, il mondo va avanti, si trasforma, ed io che leggo mediamente un libro a settimana, per la prima volta nella mia vita assisto ad una presentazione senza mettermi in fila per il firma copie. Non l'ho presa, la copia, ho il kindle (confesso, non avrei mai voluto, ma dovevo pur evitare la bancarotta).
Lo cerco prima della presentazione, gli vado incontro con il mio sorriso che spero non gli sembri eccessivo, lui non sa quanto mi abbia stimolato e spinto verso altri mille traguardi; ha pubblicato diversi miei racconti, le mie poesie. Non pretendo si ricordi di me, anche se più volte ci siamo scambiati messaggi, non può con precisione, e - se devo dirla tutta - penso che non abbia mai letto nulla di mio; si sa per le antologie di autori vari fa tutto la Redazione.
Parlo di Giulio Perrone è qui in doppia veste: Editore e Scrittore. E io dico: Bingo!
Presenta il suo secondo libro, pubblicato dalla Rizzoli:Consigli pratici per uccidere mia suocera.
No, questa non è una recensione, il libro non l'ho ancora letto, ma lo farò. So che è un libro divertente e questo già basterebbe, so che è una bella storia - e questo è ciò che un lettore cerca -, e poi lo ha scritto lui, il primo editore che mi ha pubblicata.
No, questa non è una recensione, il libro non l'ho ancora letto, ma lo farò. So che è un libro divertente e questo già basterebbe, so che è una bella storia - e questo è ciò che un lettore cerca -, e poi lo ha scritto lui, il primo editore che mi ha pubblicata.
Durante la presentazione dice che al liceo ha avuto un professore d'eccezione, il critico letterario Walter Mauro. Uaoh! Ecco, l'ho sempre detto: un buon professore è come un buon medico, può salvarti la vita.
Giulio sembra un po' Kabir Bedi, ma io non sono la perla di Labuan, meno che mai in campo letterario, ahahaha. Eppure sono una persona felice, felice di avere partecipato a questa nuova Edizione di Una Marina di libri con Apertura a Strappo, di essere riuscita a salire sul palco portando a termine la performance de "L'Amleto riscritto dalle governanti", con soddisfazione di pubblico.
Ci abbiamo lavorato sei mesi, noi di apertura a Strappo, collegandoci tramite il web quando non ci si poteva incontrare, scrivendo e riscrivendo, provando e riprovando. Con fatica, con timore, togliendo - per necessità di copione - cose venute bene, la mannaia inclemente (e sapiente): Giorgio D'Amato. Ideatore, motore propulsivo, vulcano in eterna eruzione che, come lava, a volte fa deserto, poi fertilizza.
Dovrei citare tutti i miei compagni di avventura, ma basta seguire il blog per saperne di più, molto di più di ognuno di loro, tutti speciali, tutti unici.
È l'ultima sera, vorrei godermela fino in fondo, ma sono costretta ad abbandonare il mio Eden proprio quando Alessio Castiglione sta per presentare la nostra nuova raccolta, la prima come NewBookClub, dal titolo Lettere alla libertà; mio marito batte l'indice sull'orologio, dice: è tardi, dobbiamo andare. Ha molta pazienza, lui, e non posso pretendere di più.
Una marina di libri: Un'esperienza indimenticabile.
Adelaide J. Pellitteri
lunedì 10 aprile 2017
Domenica di Palme e Razzi
Si sente dire in giro che ci ha fatto una bella figura, ha
recuperato il suo ruolo di leader e, finalmente, l’America ritorna ad essere la
punta dell’ago che indica la via da seguire. Lo fa senza chiedere il permesso a
nessuno, come esattamente fa chi è abituato ad agire, sempre e comunque, senza aver
bisogno di consultarsi con i suoi legittimi alleati. Certo è questione di
gusti, c’è infatti chi preferisce il culo alla faccia, e c’è chi pensa di aver
ricevuto da Dio il compito di guida, non sul monte Sinai, ma nello Stato di
Washington, sulla costa del Pacifico, che una volta apparteneva agli indiani
Siux, uno degli ultimi gruppi ( o nazioni) ad arrendersi alla colonizzazione
britannica, dopo lo sterminio dei tutto il loro popolo.
giovedì 30 marzo 2017
FrattoX. Recensione di Rosa La Camera
Ha tolto le tende martedì 28 marzo, il gruppo minimale
di Antonio Rezza e Ivan Bellavista, poeti dell’assurdo, che hanno riportato al Biondo di Palermo, con
“Frattox”, un tipo di teatro che avevamo conosciuto con il Living e che mi
suggerisce un cambiamento di stile nel teatro, che chiede di ritornare
probabilmente ad essere anticonvenzionale e irrequieto, come i suoi attori e
registi. Irrequieti come bambini affetti da mancata scolarizzazione, con le loro
macchine-giocattolo e quei sproloqui brevi, fitti e raffinati, giochi di stile,
che si tessono sottilmente dentro le orecchie dello spettatore, intanto
catturato anche dal movimento sulla scena, spoglia ed essenziale (la scenografia era di Flavia Mastrella che ho incontrato
all’ingresso e che come ultimo regalo alla città, distribuiva biglietti
gratuiti ai ragazzi che si erano raccolti in fila per entrare).
Sbalorditi e divertiti, gli spettatori hanno creato a loro
volta un sottofondo di risate sottovoce, per l’agilità, il piglio complice e
nello stesso tempo irriverente degli attori sulla scena, che mi suggeriva l’atteggiamento dei bambini
che spesso vogliamo recuperare da un disagio di iperattività, eliminandolo, e
che, però, non ci importa indagare. C’era qualcosa di profondo in quella
balbuzie artefatta, qualcosa di viscerale .
Rezza e Ivan esprimono e non raccontano, denunciano e
sorridono, balbettano e discutono, con frasi brevi e scoppiettanti come petardi
e con due corpi da pupi molli e versatili, saltimbanchi che mi hanno riportato
alle fiere della vecchia Inghilterra, alle piazze oltre il Tamigi, e mi hanno
fatto sentire ancora ragazza.
giovedì 23 febbraio 2017
Recensione del libro Chissà come dicono minchia in Malesia di Gualtiero Sanfilippo Ediz. Polindromo
Non occorreva certo il libro di Gualtiero Sanfilippo per portare la parola Minchia alla ribalta, lo era già da tempo, grazie a Camilleri e al suo Montalbano.
A dire il vero a renderla famosa, già molto tempo prima, era stato il film Il padrino. Sebbene pronunciata una sola volta in tutta la pellicola, tanto bastò a renderla di conoscenza planetaria.
Il titolo del libro di Gualtiero è: Chissà come dicono minchia in Malesia. E ci si domanda: ma perché questo titolo? È una questione fondamentale sapere come lo dicono in Malesia?
Beh, se è vero che un libro deve fare pensare ecco che oggi rifletto proprio sulla parola Minchia.
Infranta la barriera che la vedeva in uso solo tra il popolaccio di sesso maschile nato e cresciuto nella Sicilia biedda, oggi è diventata quasi un vezzo; superato lo Stretto ha raggiunto comodamente le Alpi e superate anche queste.
Di per sé va oltre ogni e qualsiasi superlativo assoluto. Infatti posso affermare, senza correre il pericolo di essere smentita, che essa è un passepartout per ogni occasione. Può spaziare agevolmente dai complimenti per un compleanno - magari con molte candeline (minchia novant'anni?) - al rammarico per una morte prematura (minchia muriu!).
E adesso torniamo al libro di Gualtiero partendo proprio dal titolo, vero spunto per questa mia personale riflessione.
Mi viene da pensare che l’autore, esprimendo questa curiosità, abbia voluto farci arrivare un messaggio sublimale.
In questo romanzo, infatti, la parola Minchia mi sembra un ponte con il quale lo stesso Gualtiero - il libro è autobiografico - arriva all'altro capo del mondo, in Malesia per l'appunto. È un ponte tirato su senza cemento e senza ferro, ma solido - come dovrebbero essere tutti i ponti del mondo - e sotto il quale si mescolano più fiumi; quello della giovinezza, ad esempio - capace di non temere ogni sconosciuto - quello della bellezza - come certi paesaggi esotici che l'autore descrive - quello dell'amicizia - con i tanti i ragazzi che incontra - della ricchezza interiore - perché il volontariato è questo che in fondo regala.
E così alla fine, non hai dubbi, comprendi: se non sai come si dice Minchia in Malesia in realtà non sai un vera Minchia di niente.
Adelaide J. Pellitteri
lunedì 30 gennaio 2017
La bisbetica domata di William Shakespeare, recensione di Emanuele Scaduto
Scrivere una recensione dignitosa su uno dei molti testi di Shakespeare è un’operazione complicata e non priva di imprevisti. I lettori del grande drammaturgo inglese si dividono in due categorie: quelli che lo leggono e quelli che se ne fregano, che cercano altre cose, più contemporanee, più empiriche.
Il titolo dell’opera è, in inglese, The Taming of the Shrew. Nella sua traduzione italiana diventa La bisbetica domata. La commedia apparse per la prima volta nel 1623, nella sua edizione in-folio. Il problema storiografico non è indifferente: è stato accertato che nel 1607 avvenne la pubblicazione dell’omonima commedia (che omonima, nella forma e nello stile, non è) differente dall’originale soltanto per un articolo. Il titolo, infatti, è The Taming of a Shrew. Le differenze tra le due commedie non sono poche: l’originale, infatti, è molto più complessa e articolata. A Shrew è ambientata ad Atene, The Shrew a Padova. L’introspezione psicologica dei personaggi, in The Shrew, è completa e lineare. La bisbetica ha dunque due sorelle nella “falsa” commedia e una, Bianca, in quella “vera”. Le ipotesi più affidabili sottolineano l’importanza (marginale) della commedia storpia per capire al meglio la datazione delle commedie Shakespeariane all’interno di quella piccolissima parentesi storica. A Shrew, infine, potrebbe essere non altro che una semplice fonte, o protostoria, da cui Shakespeare avrebbe potuto attingere.
La dimensione matrimoniale di cui si parla possiede qualcosa di inquietante: la donna-oggetto, quella petulante e cattiva, capace di muovere accuse contro ricchi gentiluomini che, certamente, si muovono in un ambiente di totale superiorità intellettuale e fisica. Non c’è bisogno di andare oltre, la presentazione degli altri personaggi è superflua. La commedia intera si muove a stento, fatica a trovare qualcosa di meritevole nei suoi principali interlocutori. E’ il limbo geniale e ustionante di una strada a senso unico: l’ironia. La conversazione è a volte obliqua, non di facile comprensione; i monologhi di Caterina arrivano a superare la pagina. L’unico elemento inequivocabile risiede nella fotografia letteraria che Shakespeare ci ha gentilmente regalato: l’eleganza della sorpresa, il gusto delicato di un colpo di scena che non ti prende alla sprovvista. Il problema dei sessi è affrontato con audacia. Sembra che la censura non abbia intaccato il lavoro del commediografo e questa, signori miei, è pura tristezza. Le donne come anti-eroe, così tanto tralasciate da permettere alla società civile di non porsi valide domande sui trattamenti che venivano riservati all'altro sesso in un’epoca, quella di Elisabetta, la regina vergine, in cui (ecco il paradosso) il rispetto della vita umana poteva risolversi in modi molto più elegiaci.
"SLY: Bene, bene. Voglio vederla. Andiamo, signora moglie, siedi al mio fianco e lascia che il mondo vada per suo conto. Non saremo mai più giovani di adesso."
Come non pensare, e rimandare, alla Sonata a Kreutzer di papà Tolstoj?
Emanuele Scaduto
Emanuele Scaduto
giovedì 19 gennaio 2017
IL CARAVAGGIO RUBATO - Teatro Massimo di Palermo
Ho
già visto il Maestro Giovanni Sollima in un concerto a Milano, l’ho anche visto
in Tv, con i suoi 100 violoncellisti, aprire il concerto di Capodanno di
qualche anno fa.
Ascoltare
un artista di tale livello è a dir poco entusiasmante.
Mi
incuriosisce anche il fatto criminoso, il furto del quadro.
L'EVENTO ARTISTICO
Nel
campo dell’arte esistono tre categorie di persone: I dilettanti, i professionisti
e gli Artisti.
I
primi creano opere al disotto delle regole, soddisfacendo il proprio Ego (e forse
pochi amici).
I
secondi producono opere nel perfetto rispetto delle regole soddisfacendo il
proprio Ego e gli addetti ai lavori.
Gli
ultimi, invece, producono al disopra delle regole – non fuori dalle regole, ma
proprio al disopra, cioè partendo da quelle - aggiungendo, migliorando, magnificando
ogni creazione con le proprie capacità fino a creare un’opera del tutto Nuova e
con essa nuove regole.
Soddisfano
così il proprio Ego, gli addetti ai lavori e pure i profani.
Ecco
l’ho detto, se un Artista raggiunge,
oltre agli esperti del campo, una moltitudine di profani, allora è certo che
rimarrà indimenticabile e indimenticato.
Io
sono una profana ed è da profana che vado a vedere lo spettacolo.
La
scaletta prevede un monologo del giornalista Attilio Bolzoni, la proiezione di
alcune foto di Letizia Battaglia e la proiezione di un cortometraggio di Igor
Renzetti, tutto sulle musiche scritte ed eseguite dal Maestro Giovanni Sollima
che dirigerà anche l'orchestra.
Per
gestire gli elementi di queste arti tanto diverse tra loro, occorre una regia
capace di far interagire intelligentemente tutte le opere.
C'era.
Una
straordinaria Cecilia Ligorio, regista veronese.
Bolzoni
comincia il monologo parlando della nascita di suo figlio, dicendo dei suoi
piedi nudi, parla poi della nascita, in latitanza,
dei figli di Riina, nati a piedi nudi anch'essi. Prosegue spiegando come, da
bambino, gli sia stato insegnato a riconoscere i piedi di "quelli", i mafiosi: scarpe belle e
sporche di cantiere.
Parla
del giornale L'ora.
Ai
tempi del suo arrivo in redazione, la sala, piena di fumo e bottiglie di liquore,
era bazzicata dalla Battaglia in carne e ossa e dal fantasma di Mauro De Mauro.
Cita
le stragi di mafia, quella di Viale Lazio... quella di Capaci.
"
Il cratere di Capaci è troppo grande per una piccola aula di giustizia"
Il
coro intona:
Et
in Terra Pax homnibus banae voluntatis...
Bolzoni
riprende riferendo un aneddoto accaduto a Buenos Aires, durante una lezione di
giornalismo dove il reporter Clarin sta spiegando la regola del cinque. Dice che
il pezzo deve rispondere sempre alle cinque domande: Chi, come, quando, dove e
perché. Dal fondo dell'aula si alza la voce dello studente Kiki: Io non sono
d'accordo - esordisce - per noi che siamo nati qui deve sempre rispondere alle
domande: Perché, perché, perché, perché, perché.
Citare
tutto il monologo non è possibile in un pezzo da blog, ma posso dire che le
parole, come una palla da bowling scivolavano sulla corsia del passato, ne
scandivano i tempi, quello di Caravaggio, della Natività, della nascita dei
bambini, dell'avvento della mafia fino ad arrivare dentro la Palermo con le
lenzuola a terra, con il sangue che scappava a fare i rivoli sotto i
marciapiedi. Ricordando le madri dei nascituri, dei morti, degli assassini.
Alle
spalle del narratore gigantografie in bianco e nero. Raffigurano madri che
tengono in braccio, anzi in mano, bambini appena nati. Sono mani importanti, la
regia ce le lascia vedere falange per falange, riusciamo a sentirne la forza.
Reggono la vita, tanta vita nuova, poi... la morte, asciugano il pianto,
accompagnano l'urlo del dolore, reggono foto di chi non c'è più... sparito.
Sono
immagini di una potenza infinita.
Letizia
Battaglia un Artista che conoscevo solo di nome - che brutta cosa per una
palermitana come me.
Imperdonabile
non conoscere chi della tua città, ha immortalato tutto, bellezza ed orrore,
incidendone le immagini sulla carta fotografica con la stessa intensità di un
pittore.
Per
me, proprio da questa sera, Letizia Battaglia è il Caravaggio della fotografia.
Tutto
piano piano diluisce, chiudendosi con il filmato di Igor Renzetti ci mostra la
Palermo di oggi, attraverso gli occhi di chi viene da "fuori". Le
vecchie case del centro storico, la porta del Capo, le luminarie, le facce
della gente comune. Timidi sorrisi, piccole speranze.
Palermo
è pronta a rinascere.
GIOVANNI
SOLLIMA E IL SUO
IL
CARAVAGGIO RUBATO
Se
nel pezzo precedente non ho ancora accennato al Maestro Giovanni Sollima è solo
perché non ho le stesse capacità della regista Ligorio e allora le note non so
lasciarle insinuare tra le parole e le foto, tra le foto e il filmato. Eppure
senza queste musiche tutto sarebbe rimasto meno comprensibile o meglio avrebbe scavato
meno dentro la memoria.
So
che il Maestro suona un violoncello Francesco Ruggeri fatto a Cremona nel 1679.
Per aver letto qualche notizia so che per questo spettacolo ha riscritto il
Gloria di Guillaume de Machaut, compositore medioevale. Ne ha ribaltato i ruoli vocali originali ed
allargato l'immagine sonora.
Poi
ha scelto i sublimi versi di Carlo Gesualdo
da Venosa per raccontare l'assenza.
Beltà,
poi che t'assenti,
come
ne porti il cor
porta
i tormenti.
Ché
tormentato cor
può
ben sentire
la
doglia del morire,
e
un'alma senza core
non
può sentir dolore.
Potrei
aggiungere altri particolari che però i profani come me non capirebbero e
allora riferisco dell'unica cosa che ho percepito nettamente, il Maestro
Sollima ha creato una musica - lo dice lui stesso - che può essere interpretata liberamente (l'Artista raggiunge così il
profano).
A
me è arrivata come una melodia poeticamente contraddittoria così come è tutta
la storia della mia città.
Con
le sue note, il Maestro, ha fatto strada agli eventi: la nascita della Natività
del Caravaggio, quelle dei bambini, fino a quella della mafia. Lo ha fatto con
passaggi diversi, diversi ritmi.
Sono
passaggi armoniosi, ma anche lugubri, percepisco perfino note nerissime.
Ostentato
e incalzante è il ritmo della Mafia, quando uccide senza sosta. Le percussioni
hanno tutto il crescendo degli eventi e mentre le foto scorrono sembrano
prendere voce e tutto ti entra nel petto e precipiti.
Potrai
dire di essere stata lì in mezzo, dietro le corone di fiori che accompagnavano
i morti.
I
morti nati bambini, senza scarpe, alcuni liberi, altri già latitanti.
Il
Caravaggio Rubato non è un semplice spettacolo teatrale, non avrebbe potuto
esserlo con Artisti come Sollima, Battaglia, (eccellenze palermitane), Bolzoni (palermitano
di adozione) è un evento artistico-culturale che spero venga riproposto.
Fa
ricordare, riflettere, sperare e infine lascia orgogliosi.
Palermo
è anche la meraviglia dell'arte.
Al
Teatro Massimo è andata in scena stasera.
Palermo
5 marzo 2016
L'EVENTO CRIMINOSO
Il
quadro del Caravaggio venne rubato a
Palermo dall’Oratorio San Lorenzo nel 1969. Stava lì da 360 anni e cioè da
quando il pittore, fuggito da un carcere maltese - incolpato di avere ammazzato
un uomo - venne a rifugiarsi in Sicilia, a Palermo.
Magari
è da allora che la latitanza è diventata habitué palermitana.
L'artista
- dicevo - crea la Natività, ci sono la Madonna, il bambinello, San Giuseppe,
che si vede solo di spalle, e poco vicino San Francesco con il suo compagno di
fede, fra’ Leone, poi anche un angelo, il piede che si vede è nudo.
Il
furto avviene tra il 17 e il 18 di ottobre. Data imprecisata.
Sebbene
già allora il quadro fosse stimato all’incirca un miliardo di lire (oggi
varrebbe molto di più) non era custodito da niente e da nessuno.
Il
primo giornalista che si occupa del fattaccio è Mauro De Mauro.
Sparirà
anche lui come il quadro un anno dopo.
Anche
la sparizione habitué palermitana.
Dell'opera
non si parlerà più fino agli anni ottanta; i peggiori anni che Palermo abbia
mai vissuto.
Ne
riparleranno i pentiti di mafia.
Brusca
dice che lo hanno rubato i Corleonesi per barattarlo con un alleggerimento del
41 bis.
Marino Mannoia riferisce che manacce sporche lo arrotolarono
malamente, come fosse un tappeto, rovinando la tela.
Altri che
fu seppellito con i tesori del boss Gerlando Alberti.
Altri ancora
che si trovasse in casa del boss Gaetano Badalamenti.
"Fu
un atto dimostrativo di potere", dicono pure.
Spatuzza
sostiene che la tela fu abbandonata in una stalla in attesa di un piazzamento
sul mercato nero. Lì fu rosicchiata da topi e maiali.
Ecco,
una stalla, la Natività, magari, l'hanno voluta tenere nell'ambiente naturale
che riproduceva.
Il
quadro piaceva tantissimo ad Andreotti, anche questo lo ha detto un pentito (ma
non riesco a ritrovare l'articolo dove ho letto anche il nome del pentito).
Tante
verità, troppe.
E
penso che tutte insieme facciano una sola grande bugia.
Il
furto, iscritto sulla lista dell'FBI, risulta ancora oggi tra i primi dieci
crimini d'arte.
Il
mistero rimane ed è tanto interessante che la Sellerio - che della Sicilia e di
Palermo in particolare cura ogni memoria - pubblica il libro dal titolo Il
Caravaggio rubato - appunto - scritto di Luca Scarlini. Nel libro ne viene
citato un altro, Una storia semplice di Leonardo Sciascia, ispirato proprio al
furto.
Allo
stesso caso viene dedicato ancora un altro libro, scritto questa volta dal
giornalista inglese Peter Wtason, pubblicato nell'84. Narra di un incontro con
Rodolfo Siviero (agente segreto, esperto d'arte e intellettuale italiano, morto
nell'81). Questi pare abbia confidato al giornalista di avere ricevuto la
proposta d'acquisto della Natività. L'incontro con i trafficanti è fissato per
la sera del 23 novembre del 1980, ma il terremoto dell'Irpinia manda a monte
l'operazione.
Oggi
all'Oratorio San Lorenzo in Via Immacolatella 3, a due passi dalla Chiesa San
Francesco, tra gli impareggiabili stucchi del Serpotta, l'opera è tornata a
vivere. Questo grazie ad un progetto di Sky Arte che ha commissionato la
riproduzione del dipinto ad un laboratorio specializzato di Madrid.
L'opera
realizzata - costata 100.000 euro - è stata donata da Sky alla Presidenza della
Repubblica e il Capo di Stato, Sergio Mattarella (eccellenza palermitana anche
questa), l'ha donata a sua volta all'Oratorio San Lorenzo, riportando così il
quadro, sebbene frutto di tecnologia, al suo posto originario intatto nella sua
bellezza.
Ovunque
abbia tenuto, sotterrato o perso il Caravaggio, la mafia non ha dimostrato un
atto di potere ma solo la solita ottusa ignoranza.
Adelaide Jole Pellitteri
lunedì 16 gennaio 2017
Elephant man
"Gli uomini hanno paura di
ciò che non capiscono"
( Joseph Merrick )
Escrescenze ovunque. Masse compatte multiformi, sovrapposizioni di immagini: un parto, elefanti che le respirano sul ventre, un vagito, due o tre barriti, Africa nera. Nascere con pezzi di carne in più, pregiudizi attaccati a zampe di pidocchi che i parassiti epidermici non assottigliano gli strati adiposi, ti succhiano il sangue e le diversità gestite con superficialità anche quello. Mostruoso per i veri mostri che lo guardano sconvolti: Elephant man lo chiamano.
Il
film (e anche il libro) narrano la storia vera di un uomo affetto dalla Sindrome di
Proteo, una malattia che sviluppa palle di carne, - immagina tuberi e
pezzi enormi dalla forma di zenzero fresco sulla testa, sul corpo;
prova a sentire raccapricciante poi accattivante deformità, ecco ti
sentirai nei suoi panni. Joseph rincorre il sogno di dormire a faccia
in su, che a guardare col naso al cielo brillano le stelle, le puoi
vedere anche cadere, esprimere il desiderio che gli esseri umani
siano tutti uguali o pronti per amare le diversità altrui,
arricchirsene; morire felice perché adesso lui è amato, nonostante
le anomale differenze. Una serata al teatro, un applauso, una stella
- O Romeo, Romeo ! perché sei tu Romeo, rinnega tuo padre e rifiuta il tuo nome... Un fenomeno da
baraccone per la gente, ( lui copre la testa e il viso con un sacco
di tela ) costretto a mostrarsi al circo. - Venghino Signori,
venghino! Puoi vederlo anche tu, pagare una manciata di soldi così
da specchiarti e trovarti bello anzi bellissimo più che mai. Se
avrai il coraggio di fissare i suoi tuberi, le tue escrescenze ti
sembreranno inesistenti, i tuoi villi intestinali corrosi dalla bile
di una esistenza inutile a mostrare sorrisi e denti bianchi. La sua
bocca storta proferirà parole chiare di semplice pronunzia ma che ti
stupiranno, il suo annuire gelerà il meccanismo del comprendonio
secondo la lunghezza d'onda della normalità ( banale classificazione
), Joseph arriva a capire nonostante l'ossigeno al cervello gli
arrivi a tratti, la sua intelligenza trova spazio tra le gallerie
tuberose di tumori e carne viva anche se di troppo. L'essere in più
travalica il resto, sconvolge e terrorizza gli altri, chi ha ben poco
da mostrare ( mandibola regolare, viso dai tratti anatomici perfetti
). Lui si adagia su se stesso tutto storto e i pomfi sotto le piante
dei piedi gli regalano una andatura irregolare che scappa davanti
agli occhi strabici di chi vede le cose come stanno - L'uomo dal
fiore in bocca ne godrebbe alla vista. Elephant man va oltre, naso in
alto al cielo, stella, afferra il suo desiderio, chiude gli occhi
felice. Respira a stento, sceglie di morire. Il viso di sua madre gli
sorride, la foto al centro del tavolino ritrae beltà sotto vetro di
un tempo passato, la cornice annerita dall'umidità, lucida la
mancanza di momenti; e mentre gira la giostra della sua vita
schizzata di dolore per la sua incurabile malattia, ne interrompe il
meccanismo e stabilisce di non aspettare la morte naturale per
liberarsi da un destino ineluttabile. La sua fine nella fine del film
e un pensiero per noi spettatori. Ascolta - "L'acqua scorre, il
vento soffia, le nuvole fuggono, il cuore batte". Niente muore.
Nina Tarantino
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