L'Orestea di Eschilo è l'unica trilogia tragica pervenutaci integra. Fu allestita nel 458 a.C. e fruttò al suo autore la vittoria agli agoni tragici. Eschilo ottenne almeno altre tredici vittorie, segno dell'avvenuto riconiscimento da parte dei giudici ateniesi e del pubblico, della grandezza della sua arte.
Della sua vasta produzione, tuttavia, ci sono pervenute complete solo sette tragedie, tra le quali l'Agamennone, le Coefore e le Eumenidi, che costituiscono l'Orestea.
Nelle tre tragedie, attraverso la saga del destino degli Atridi, l'autore supera la concezione del mito secondo la quale le sventure non provengono dalla appartenenza al ghenos ma da responsabilità umane ben precise. L'assassinio di Agamennone infatti, che viene compiuto dalla moglie Clitemnestra e dal suo amante Egisto, per vendicare l'uccisione perpetrata dall'eroe greco, della figlia Ifigenia, sacrificata per favorire la partenza da Troia della flotta greca, fa sì che l'uccisione di Clitemnistra e di Egisto da parte del figlio di Agamennone, Oreste, si concluda con l'invito a quest'ultimo, ad opera di Apollo, a rivolgersi ad Atena per la sua assoluzione. Atena istituirà a questo scopo l'Aeropago, il tribunale che giudica i delitti di sangue, e grazie ad esso si affermerà uno stato di diritto che finisce per sottrarre Oreste alla arcaica legge della vendetta decretata dalla appartenenza al ghenos e, nel contempo,conferisce a Zeus il potere di guidare l'uomo sulla via della conoscenza etica attraverso la sofferenza, come afferma nella parodo dell'Agamennone il coro dei vecchi argivi:
Zeus mostrò ai mortali la via della saggezza,
fissando la legge "soffrire per comprendere" (pathei mathos).
fissando la legge "soffrire per comprendere" (pathei mathos).
Anche Dostoevskij, scrittore russo dell'Ottocento, ne Le memorie dal sottosuolo, testo che funge da spartiacque tra i romanzi brevi e il feuilleton e i "romanzi polifonici", secondo la definizione data da Bachtin, si chiederà: "Che cosa è meglio: una volgare felicità o una elevata sofferenza?", e finirà per concludere che "la sofferenza è l'unica fonte della coscienza".
Isabella Raccuglia