Eh sì che te l’hanno detto in tanti che ti facevano strani segnali, alcuni alzavano il braccio, e facevano sporgere due dita, ma non che le altre gliele avessero tagliate, no mani belle e compatte, cinque dita che all’occorrenza potevano trasformarsi in cinque dita di violenza, e il pollice, quello a discrezione personale o in bella vista o a tenere le altre piegate!
C’erano tipi che si allenavano tutta la stagione per tirare fuori quella sincronia necessaria affinché epiteto e gesto si accompagnassero simultaneamente a vicenda; più allenati dei calciatori stessi curavano la dizione, il tono con scrupolo – la cadenza è importante -, uno non può mica regolarsi solo con il gesto, certo se c’è confusione la mano si vede subito, è evidente e i simboli sono importanti, linguaggio universale, ma vuoi mettere la soddisfazione di urlarlo a pieni polmoni? Alcuni, i veterani, organizzavano corsi per i più giovani, addirittura i cori, sì, come quelli degli alpini, varie tonalità per una sola parola. Un crescendo da curva a curva e in questo l’affiatamento univa anche le fazioni contrapposte.
In uno stadio cari signori su un argomento soltanto, si è tutti concordi.
Ed è inutile che il signore in casacca nera finga indifferenza.
La domenica nelle famiglie palermitane è un fuggi fuggi generale, di mattina presto, ma che dico? dalla sera prima! Tutti pronti: nonno, figlio e nipote, tutti rigorosamente maschi, che lo stadio non è roba da femmine, le femmine a casa a preparare, che quando si torna il pititto è orbo che in curva sud ti danno ghiaccioli se sei fortunato, e bottiglie d’acqua piene in testa se esulti nel momento sbagliato. Partenza, bandiere, cappellini, sciarpe, e megafoni sotto il sedile, che all’uscita dobbiamo essere pronti a qualsiasi evenienza; ci si apposta ai cancelli chiusi, tutti in fila per i controlli, neanche dovessimo prendere un volo internazionale e non si capisce mai come caspita facciano a entrare bombe carta, manganelli e a volte anche dei motori senza ruote (uno disse una volta che seduto là stava più comodo).
Il calcio è una religione per il palermitano, e l’arbitro è il “capro” espiatorio. L’epiteto varia da quartiere a quartiere, la provenienza geolocalizzata incide notevolmente e all’ascolto è possibile comprendere a quale insediamento (arabo, normanno o altro) si possa far riferimento. Prendiamo come esempio i residenti della Kalsa, (pronuncia: Ausa, con una acca un poco aspirata alla fiorentina), ebbene, là all’epiteto si aggiunge anche la frase …e tutta a to rezza, sì, signori, non razza, avete inteso bene. Palermo si sa, è frutto di miscellanee etniche, ma qualcuno potrebbe obiettare che il risultato non cambia. Da noi la dizione è tutto, ti identifica e ti colloca. E allora il nostro arbitro potrà distinguere provenienza e classe sociale, e andrà a casa con più soddisfazione e con una maggiore conoscenza delle lingue.
Il tifoso andrà a casa e per un giorno avrà messo nel dimenticatoio tutti i suoi problemi, risolta la partita e dato all’arbitro quel che è dell’arbitro, la patria è salva.
Adele Musso