Ma che gioia!?!
Generalmente non infierisco contro i libri, nemmeno contro quelli che non mi entusiasmano particolarmente, perché rispetto gli scrittori e cerco di
immedesimarmi nello sforzo che compiono per comunicare qualcosa attraverso la
loro opera. Ebbene, con Lapierre non ce la faccio. Se lo avessi davanti, gli
chiederei: Lapierre, anzi Dominique, perché?
Con tutta la buona volontà, non riesco a
trovare niente, ma proprio niente, di salvabile in questa sua fatica. Sì,
fatica. Per lo scrittore, che ha partorito il libro in questione a seguito di
anni trascorsi in India, e per il lettore che deve fare i conti con un
resoconto più noioso di un documentario muto. Almeno, però, in un documentario
c’è il gusto di vedere immagini più o meno accurate, nel caso del lavoro di
Lapierre, non solo lo scenario che ci si presenta alla vista non riesce a far
entrare chi legge nei luoghi descritti, ma ha l’aggravante di un atteggiamento
missionario davvero irritante nel suo moralismo.
I poveri indiani,
pur non avendo niente, ma proprio niente, riescono a vivere, ad amare e perfino
a gioire mentre tu, abbietto uomo occidentale, devi vergognarti del tuo
materialismo che t’impedisce di apprezzare i veri valori. In linea di massima
il messaggio è questo.
In cosa consiste
la trama? Le vicende parallele di due protagonisti, Paul Lambert, un prete
francese che si trasferisce a Calcutta per elevarsi spiritualmente stando a
contatto con i miseri abitanti di una bidonville (nel libro, tanto per
confondere le menti che hanno minor dimestichezza con la terminologia indiana,
si chiama slum) e cercando, comunque, di ricambiare gli insegnamenti morali dei
poveri, compito che non gli richiede chissà che impegno, perché coloro che si
rivelano essere suoi maestri, salvo nei casi medici, rifiutano
l’assistenzialismo e vogliono evolversi da sé – come dimostra una giovane
coppia che, con grande sacrificio, riesce ad accumulare il necessario per
lasciare Calcutta e tornare a vivere nelle campagne bengalesi per condurre una
vita contadina, socialmente più dignitosa -. L’altro protagonista è Hasari Pal,
un contadino che si trasferisce con la famiglia a Calcutta in seguito alla
catastrofe economica che si abbatte nella sua vita per via della prolungata
siccità che ha rovinato i suoi campi. Solo sul finire del libro Hasari e Paul
s’incontreranno – il contadino che per un periodo ha vissuto sul marciapiede,
poi grazie al lavoro di uomo-risciò può permettersi una baracca in una
bidonville, questa a sua volta verrà distrutta perché sorgeva sulla futura
linea ferroviaria e allora, grazie a un amico, Hasari trova alloggio in una
baracca alla Città della Gioia, ovvero la bidonville in cui abita il prete -.
Il loro incontro non aggiunge niente di nuovo al racconto. In realtà, la figura
stessa di Hasari è superflua: se l’intento dell’autore era quello di offrire
due punti di vista diversi – quello occidentale e quello locale – non è andato
a buon fine. Il giudizio dello scrittore si sente in entrambe le voci; inoltre
ha dato vita a talmente tanti personaggi che raccontano il loro vissuto, non
dissimile da quello di Hasari, che il contadino è solo uno in più (e più
prolisso). Si giunge faticosamente all'ultima pagina, non perché la narrazione
non sia scorrevole, ma perché oltre alla fotografia della miseria non c’è
proprio niente, al punto da chiedersi, chiudendo il libro: e allora? Con la
sgradevole sensazione di essere stati raggirati nel riguardare lo stemmino Best
Seller in copertina.
Serena Giattina