martedì 10 febbraio 2015

American Sniper

Mentre guardi questo film non puoi fare a meno di pensare. Pensare alla fine delle cose. American Sniper è un obiettivo sul mondo. Un mondo di morte. Protagonista del film è Chris, che il regista Eastwood ci mostra da bambino. Il padre gli ha insegnato che nel mondo ci sono tre tipologie di uomini: lupi, pecore e cani pastori. Lui sa già a chi appartiene.
Io seguo con attenzione e alcune scene mi commuovono. Sangue sangue, e ancora, odio, uomini che corrono, marines, soldati, musulmani, donne e bambini. Corrono tutti. Fucili di tutte le grandezze. Tanti spari, uomini colpiti a terra, teste maciullate, occhi fuori dalle orbite, scene di guerra e morte. Ogni volta che sento uno sparo per istinto chiudo gli occhi; una bimba lo fa quando le scene sono rosse e forti, come a dire non voglio, io non voglio vedere questo.
Non voglio vedere l'uomo che spara sull'uomo. Non voglio contare i mutilati, i malati, i folli, i morti. Non voglio vedere il deserto e le case vuote, non voglio vedere la terra bruciare, le case distrutte dalle bombe.
Il rumore rimbomba nel cervello, il male innesta le sue radici umane. Esiste forse una guerra giusta? Eppure a dirlo fu un grande teologo, Sant'Agostino.
Anche il regista Eastwood lo sa. Nel film il protagonista spara per dovere professionale e amore per la sua patria, l'America. Arriva anche un'onda d'amore che si accavalla all'altra, infrange il male, lo spinge ai bordi. L'amore per una donna e per i figli, poi ancora turni di guerra, bombe, corpi che saltano in aria, un bimbo  ucciso dalla punta di un trapano elettrico, davanti al padre, davanti a tutti noi che guardiamo seduti sul velluto. Guardiamo il male che ci inebria, ci seduce, che ci  vive accanto, si muove dentro, che tenue si nutre e cresce nelle budella di corpi dalle teste mozzate, nelle esplosioni incandescenti; muore negli occhi lucidi di commozione, che nasce un bambino, (il regista sposta l'obiettivo) nasce il figlio di Chris, nasce figlio di tutti, muore pianto di intera umanità. Lui deve andare, perchè  la guerra c'è, esiste, è sempre. Dalla guerra non si torna. Polvere. Morte.


Il regista chiude l'ultima scena di fuoco con la tempesta di sabbia come se questa servisse a confondere o a coprire tutte le oscenità umane. E poi cerca di fare tornare il protagonista a una "vita normale" cosa impossibile per chi il verme lo porta dentro. Il più letale dei cecchini d' America, muore per un colpo partito per sbaglio dopo averne schivati milioni guidati da mirini di altissima precisione. Fa la stessa fine di un uomo che si arrampica e si adopera in manovre da acrabota, senza rete, cammina in bilico su un cornicione a 300 m di altezza e resta vivo e poi muore mentre scivola da un gradino per strada, sull'asfalto. Spesso non è il codice esterno che ci mostra il male, cresce e subdolo dimora, aumenta dentro l'individuo. Il protagonista muore proprio così, per sbaglio, per un errore da principiante, ( colpito da un commilitone che lui addestra ) eroe e vittima della stessa umanità, della sua sopravvivenza. Porta dentro la colpa. E finisce la storia. La storia? Leggo e si tratta di un libro autobiografico. La vita fenomeno casuale, un paradosso. Ogni uomo è coinvolto nel suo destino, in un aut aut continuo. La guerra necessaria, fatta per dovere o per errore? Per amore della pace. Ci penso.Trattengo il respiro. Si spara ancora.


Nina Tarantino